“Il problema non è il calcio, il problema è l’Argentina, il Paese ultrà.” – El Clarín
Boca-River avrebbe dovuto chiudere, in grande stile, una storia eccezionale. Quella della Copa Libertadores, torneo simbolo del calcio sudamericano che, a differenza della sua cugina europea, si è sempre concluso non con una finale unica ma divisa in due partite, in casa di entrambe le contendenti. Perché il calcio in Sudamerica non è un evento, è quotidianità, e tutti hanno diritto a viverlo a casa propria, nel proprio stadio. Dal 2019, la Libertadores avrà per la prima volta una finale unica in campo neutro, in stile Champions League. Il caso ha voluto che l’ultima Libertadores “classica” venisse decisa dal Superclasico: Boca Juniors contro River Plate, i due club di Buenos Aires ed emblema del futbol argentino, che mai prima d’ora s’erano affrontati in finale. Ma tutti sanno che quella partita non è mai stata disputata.
Fin dal momento in cui emerse con chiarezza quali squadre si sarebbero contese la Libertadores, a chi stava nei posti di potere erano presi a scendere sudori freddi: da sei anni, in campionato, i derby di Buenos Aires si giocano con trasferta vietata – ai tifosi del Boca non è permesso entrare al Monumental, e a quelli del River non è permesso entrare alla Bombonera – per evitare scontri violenti. Il presidente argentino Mauricio Macri aveva provato ad aprire gli stadi a entrambe le tifoserie, “un’occasione per dimostrare maturità e che stiamo cambiando”. Ovviamente, gli fu risposto che non era proprio il caso. L’11 novembre, la Bombonera sarebbe stata piena solo di xeneizes, e il 24 novembre il Monumental sarebbe stato pieno solo di millionarios.

L’andata finisce in un nulla di fatto, 2-2, con leggero vantaggio per il River grazie alla regola dei gol in trasferta. Il 23 novembre, all’ultimo allenamento del Boca, ci sono 50mila persone allo stadio. Il giorno dopo, tre ore prima del match, le strade attorno al Monumental sono piene di gente; il pullman del Boca viene assaltato e preso a sassate, dei giocatori feriti e portati in ospedale; il match rinviato. Prima di un’ora poi, di altre due, poi la sera dopo, poi a data da definirsi, poi si parla di farlo in campo neutro, magari ad Asuncion in Paraguay. Infine si decide per il 9 dicembre a Madrid, in Spagna. Direttamente in un altro continente, per essere sicuri che i tifosi argentini non ci arrivino e non replichino i tafferugli di Buenos Aires. Nel frattempo, il 30 novembre e il 1° dicembre, Buenos Aires ospita la riunione del G20.
“Non sono una manciata di disadattati, sono molti e completamente inseriti in un sistema che giustifica una passione completamente sbagliata, dove il rivale è un nemico. Non si deve semplicemente batterlo, ma aggredirlo, umiliarlo, ucciderlo.” Sono le parole di Daniel Arcucci, inviato della stampa argentina a Napoli ai tempi di Maradona: le barras bravas, le frange più estremiste del tifo di Buenos Aires, sono un problema da tempo e, laggiù come qua in Italia, sono arrivate a essere potentissime grazie al nullaosta delle società. Il calcio argentino è in mano loro: controllano il bagarinaggio, il sistema dei parcheggi abusivi fuori dagli stadio, lo spaccio di droga nelle curve, e decidono che entra e chi no. Talvolta – per la verità, piuttosto spesso – ammazzano qualcuno: dal 1922 a oggi, sono 328 i morti per la violenza del tifo argentino; in Italia, appena 23. Nel paese delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione delle donne che hanno perso figli e mariti a causa della dittatura militare, esiste Salvemos el Futbol, un’associazione di madri delle vittime della violenza negli stadi.
Alcuni club hanno stretto un intenso rapporto con i barrabrava, al punto da riconoscergli stipendi e bonus in caso di trasferimenti di certi giocatori, specie se hanno avuto qualche ruolo nell’operazione. Se serve, i barrabrava si occupano anche di minacciare e magari dare una lezione a chi dà fastidio alla dirigenza, sono assurti a “mediatori” politici nell’abito della gestione interna delle società – il cui presidente viene eletto ogni quattro anni dai soci, non senza rivalità e dissidi che in qualche modo devono pur essere sedati. E, se oggi Macri promette pugno duro contro il tifo violento, fino a qualche anno fa se li coccolava amorevolmente: a partire dal 1995 al 2007, infatti, fu presidente del Boca Juniors. Nello stesso periodo della sua presidenza, Macri metteva da parte denaro in conti off-shore a Panama senza farne denuncia alle autorità argentine, ma questa è un’altra faccenda. Fatto sta che nel 2007 passò dalla guida del Boca a quella della città di Buenos Aires, e nel 2015 vinse le elezioni nazionali: in vent’anni è passato dal gestire i barrabravas a gestire il Paese.

Al suo arrivo alla scrivania degli Xeneizes, Macri ingaggiò come uomo di fiducia Gustavo Arribas per occuparsi del mercato del club: nei successivi vent’anni, tutti i trasferimenti più importanti del calcio argentino lo hanno visto coinvolto in prima persona (come quello clamoroso di Carlos Tevez dal Boca ai brasiliani del Corinthians, appena passati sotto controllo della controversa Media Sport Investment), con numerosi sospetti di frodi, mazzette, evasione fiscale e altre attività illegali. Nel 2015, Arribas è stato nominato a capo dell’Agencia Federal de Inteligencia, i servizi segreti argentini. Nel frattempo, per sostituirlo alla guida del Boca, Macri ha scelto come nuovo presidente l’amico Daniel Angelici, che nel 2015 è stato eletto pure vicepresidente dell’AFA, la Federcalcio argentina, ed è al momento accusato di aver inserito amici, famigliari e soci d’affari a ogni livello del potere argentino: non solo nel sistema calcio, ma anche nell’amministrazione comunale di Buenos Aires, in parlamento, nel Ministero della Giustizia e anche nel sistema economico e bancario. Inutile sottolineare che pure i nomi di Angelici e Arribas figurano nei Panama Papers.
Non deve stupire allora che il simbolo del calcio albiceleste Diego Armando Maradona abbia pubblicamente incolpato Mauricio Macri di quanto avvenuto, definendolo “il peggiore presidente della storia”. Negli ultimi mesi, l’Argentina ha visto un nuovo crollo dell’economia, dopo quello tragico del 2001: il PIL è in caduta libera, mentre l’inflazione cresce a ritmi record, i tassi d’interesse sono saliti al 60% e, con il default alle porte, il governo ha da tempo chiesto nuovi aiuti al Fondo Monetario Internazionale. “In un paese dove un terzo della popolazione è povera, dove c’è il 45% di inflazione e l’educazione è in caduta libera, questa finale era l’occasione di mostrare un’immagine positiva del nostro Paese.” ha detto lo scrittore Martín Caparrós. Solo che pure il calcio argentino non se la sta passando bene, con il caos per la composizione dei calendari del campionato e la Selección che, dopo la figuraccia ai Mondiali di Russia, non ha ancora trovato un nuovo allenatore e resta affidata ad interim a Lionel Scaloni.
Perché è facile puntare il dito contro i barrabravas, ma più spesso serve a nascondere metà della storia e metà delle responsabilità. Lo sanno tutti che la prima rissa nel Superclasico risale addirittura al 1913, primo incontro ufficiale tra Boca e River, sospeso dopo nemmeno mezzora, e che da allora è stata un’escalation di scontri e battaglie tra tifoserie culminate con questa clamorosa prova di forza, forse in risposta all’arresto, pochi giorni prima della finale, di Héctor el Caverna Godoy, leader dei Borrachos del River Plate, trovato con la casa piena di soldi e biglietti per la partita, che è facile immaginare chi glieli avesse forniti. Ma se in oltre un secolo la situazione non solo non è migliorata, ma è addirittura arrivata al palcoscenico internazionale, le colpe stanno anche altrove.

La finale dell’ultima Copa Libertadores classica non è mai stata disputata. Al suo posto, domenica 9 dicembre, si assiste a una pantomima, a un simulacro: il più importante trofeo del calcio sudamericano verrà assegnato in Europa, con un partita in cui nessuno interessa più vincere (anche perché, dopo di essa, noialtri metteremo il punto, ma River e Boca torneranno ad affrontarsi ancora in campionato, due volte all’anno escludendo la coppa nazionale, e implicitamente questa Libertadores sarà peccato originale e oggetto del contendere di futuri dissaporti). Il trofeo che porta il nome dei padri dell’indipendenza sudamericana, beffa suprema, verrà assegnato alla corte del re di Spagna, nello stadio più Real di tutti, il Santiago Bernabeu di Madrid.
Fonti
–AA VV, Quello che resta della finale di Copa Libertadores, Il Post
–AA VV, River-Boca al Bernabeu: tutti i passaggi e la ricostruzione della finale infinita, Sky Sport
–CIAPPELLI Giovanni, Il mondo a parte di Boca e River, Zona Cesarini
–GABRIELLI Fabrizio, River-Boca, la finale senza finale, L’Ultimo Uomo
-GALASSI Paolo, Conquistatori e Libertadores: l’agonia argentina, La Repubblica
–GRABIA Gustavo, La 12: historia de una traición, Anfibia
–LAGARES Daniel, River-Boca: la Superfinal es el final de una sociedad inculta y enferma, El Clarín
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