Il 13 agosto, durante la Supercoppa europea tra PSG e Tottenham, la UEFA ha portato in campo un messaggio che recitava: “Basta uccidere i bambini, basta uccidere i civili”. Anche senza espliciti riferimenti, è stato chiaro a tutti che si stava parlando del massacro in corso in Palestina. Solo pochi giorni prima, la stessa UEFA aveva inaspettatamente pubblicato sui social un ricordo di Suleiman Al-Obeid, il cosiddetto “Pelé palestinese”, ucciso in un attacco israeliano mentre era in fila per gli aiuti umanitari. Anche in quel caso non c’era alcun riferimento alle circostanze della sua morte, ma pochi hanno sottolineato l’importanza politica di quel piccolo gesto: la UEFA aveva chiaramente fatto qualcosa di irrituale, commemorando la morte di un giocatore che non aveva nulla a che fare con il calcio europeo, cioè con il suo ambito di competenza.
Sono piccoli sintomi di un atteggiamento nei confronti di Israele e della sua “guerra unilaterale” in fase di mutamento, da parte del calcio del Vecchio Continente. Negli stessi giorni, il presidente della UEFA Aleksander Čeferin parlava della possibilità di sospendere Israele dai match internazionali, dicendo che, seppure la posizione della sua associazione sia al momento contraria a questa soluzione, “È molto difficile per me commentare cosa potrebbe accadere in futuro”. Per la prima volta, uno dei massimi dirigenti del calcio internazionale non ha negato del tutto la possibilità di sanzioni contro Israele: le parole di Čeferin hanno di fatto smarcato la UEFA dalla posizione della FIFA, che finora è stata di imbarazzato silenzio. La richiesta di azioni sportive contro la federazione israeliana IFA sembra essersi arenata: nell’ottobre 2024 la FIFA ha annunciato la formazione di due comitati per analizzare le denunce della palestinese PFA, ma da allora non sono più giunte novità. Nel frattempo, il presidente della FIFA Gianni Infantino si è avvicinato in maniera molto evidente a Donald Trump, le cui posizioni filo-Netanyahu sono indiscutibili.
“Penso che sia giunto il momento di smettere di fingere di essere un’organizzazione sportiva che vive su un altro pianeta” ha ribadito Čeferin parlando con l’emittente slovena Odmevi. Ma dalle parole ai fatti, il salto rischia di essere più difficoltoso del previsto. Cosa dovrebbe comportare, per la UEFA, essere politicamente più consapevole e responsabile rispetto a ciò che succede nel mondo? Il supporto, anche economico, alle ong per i diritti umani e ad altre associazioni umanitarie è qualcosa che le istituzioni del calcio fanno da tempo, quindi cosa si potrebbe fare di più, per dare seguito ai propositi di Čeferin? Sarebbe troppo ingenuo rispondere che basterebbe escludere Israele, come fatto nel 2022 con la Russia: sulla questione delle sospensioni dei paesi aggressori, sia la UEFA che la FIFA si sono mosse in maniera molto strumentale e contraddittoria. Per esempio, per una Russia che è stata sanzionata abbiamo avuto una Bielorussia che, nell’indifferenza generale e sebbene impegnata al fianco di Mosca nella guerra in Ucraina, non ha subito alcuna conseguenza.
Punire Israele è visto da molti come un atto legittimo proprio in virtù delle precedenti sanzioni verso la Russia, ma allo stesso tempo dovrebbe aprire ulteriori questioni: perché non sanzionare l’Arabia Saudita (e quindi, per esempio, il Newcastle), a causa della guerra in Yemen? E si dovrebbe fare lo stesso con l’Azerbaijan (e quindi con il Qarabağ, in corsa in questi giorni per un posto in Champions League) per la brutale aggressione contro la repubblica armena dell’Artsakh. Andrebbero vietate le sponsorizzazioni del Ruanda (che attualmente ha accordi con PSG, Arsenal, Bayern Monaco e Atlético Madrid), finanziatore dei massacri commessi dai miliziani M23 nella Repubblica Democratica del Congo. Pensare che escludere Israele dalle competizioni internazionali possa riparare all’ipocrisia del mondo del calcio e al doppio standard rispetto al caso russo, è in realtà la rivelazione di un doppio standard ancora maggiore che pure molti attivisti hanno nei confronti di altrettanto gravi conflitti in giro per il mondo.

La conseguenza è purtroppo uno stallo: se sanzioniamo tutti, allora non resta più nessuno con cui giocare a calcio. Questo sport è talmente interconnesso con interessi economici e politici globali, spesso anche di paesi autoritari e militarmente aggressivi, che agire secondo coscienza rischia di creare un effetto domino in grado di cancellare l’intero impianto su cui si regge il sistema calcio. Sanzionare i sauditi o i turchi, per esempio, finirebbe con l’innescare gravi problemi economici per i club europei, che non potrebbero più vendere i costosi esuberi delle proprie rose a questi ricchi club stranieri, molto attivi sul calciomercato. Un’azione contro gli Stati Uniti (in risposta, per esempio, alle politiche anti-immigrati di Trump) metterebbe a repentaglio i Mondiali della prossima estate, ma soprattutto comporterebbe dei grossi problemi per i numerosi club di proprietà statunitense oggi presenti in Europa, che in campionati come la Premier League e la Serie A rappresentano circa la metà dei partecipanti.
Al di là di questo, la situazione con Israele presenta comunque delle singolarità che, per il momento, il calcio europeo sta cercando di ignorare. Da quasi due anni le squadre israeliane, sia nazionali che di club, non possono ospitare incontri internazionali in casa propria, costringendo a trovare sedi alternative (quasi sempre nell’Ungheria di Orbán, a proposito di controversie). In alcuni casi, questi incontri sono diventati occasione di tensione e anche di violenze, specialmente quando di mezzo ci sono tifoserie piuttosto bellicose, come quella del Maccabi Tel Aviv. In altri, ne sono sorti dei casi diplomatici: questo agosto, i tifosi del Raków Częstochowa (per la cronaca, una delle tifoserie più di estrema destra in Polonia) hanno accolto il Maccabi Haifa nei preliminari di Conference League con uno striscione che diceva “Israele uccide e il mondo resta a guardare”. Per il ritorno a Debrecen, gli ultras israeliani hanno risposto con la scritta “Assassini fin dal 1939”, che è stata condannata dal Presidente della Repubblica polacco Karol Nawrocki. In ultimo, il 16 agosto gli ultras dell’Hapoel Be’er Sheva hanno paragonato la UEFA ad Hamas, durante il match di Coppa d’Israele contro l’Hapoel Tel Aviv.
L’associazione di Čeferin ha già sanzionato il Maccabi Haifa per lo squallido striscione contro i polacchi, e probabilmente farà lo stesso con l’Hapoel Be’er Sheva, ma è evidente che oggi i match che coinvolgono squadre israeliane sono divenuti portatori di polemiche e problemi. Il 14 novembre 2024, meno di 17.000 persone erano presenti a Parigi per Francia-Israele di Nations League, facendo registrare la più bassa affluenza di sempre per i Bleus allo Stade de France. Numeri che cozzano con l’imponente dispiego di mezzi e di personale di sicurezza per l’incontro, decisamente superiore alla media. Qualcosa di simile era avvenuto il mese prima a Udine con l’Italia (circa 11.000 spettatori), e probabilmente il prossimo 14 ottobre, quando la gara si ripeterà nelle qualificazioni mondiali, l’affluenza sarà ancora più bassa. La FIGC non si esprime su Italia-Israele, ma nel frattempo diverse associazioni, anche interne al mondo del calcio (non ultima, l’Assoallenatori), e perfino il Comune di Udine hanno espresso la propria contrarietà alla partita.
È legittimo, a questo punto, domandarsi che senso abbiano degli incontri che vengono volutamente snobbati da gran parte del pubblico, e che richiedono un enorme impegno in termini di sicurezza, causando al contempo polemiche molto accese. Eppure, nonostante tutto questo e le timide prese di posizione della UEFA negli ultimi giorni, nulla sembra destinato a cambiare: lo status quo del calcio europeo nei riguardi di Israele resterà inalterato. La Norvegia, che ospiterà la selezione di Tel Aviv a Oslo l’11 ottobre, ha deciso che l’intero incasso verrà devoluto in beneficenza per la popolazione di Gaza: iniziativa lodevole, ma che si scontra con la realtà dei fatti, ovvero che da mesi Israele sta bloccando l’arrivo di aiuti umanitari nella Striscia. Molti attivisti chiedono dunque il boicottaggio di queste partite, ma ciò comporterebbe, a norma di regolamento, la vittoria a tavolino degli israeliani e la concreta possibilità di una loro qualificazione ai Mondiali del 2026. Nel tentativo di boicottare Tel Aviv, si finirebbe per regalargli uno dei più importanti palcoscenici di propaganda della sua storia (Israele non si qualifica alla fase finale di un grande torneo di calcio dal 1970). Rieccoci, dunque, in uno stallo.

Il calcio sembra un sistema sostanzialmente irriformabile, almeno sotto questo aspetto. E dire che mai come oggi i paesi arabi (teoricamente i più vicini alla causa palestinese) godono di un peso politico all’interno di UEFA e FIFA che darebbe loro la possibilità di spingere per un’esclusione di Israele dalle competizioni internazionali. Il Qatar è notoriamente il più importante finanziatore di Hamas, e da oltre dieci anni ospita alcuni dei suoi principali leader politici. L’Arabia Saudita, per contro, è un forte sostenitore dell’ANP, eppure negli ultimi tempi ha stabilito delle ottime relazioni con Tel Aviv, che ora non vuole mettere troppo a repentaglio. In poche parole, a moltissimi importa dei palestinesi, ma evidentemente non così tanto da fare pressioni sulle istituzioni sportive per sanzionare Israele.
Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.
Mi sembra anche scontato commentare che c’è differenza tra la rappresentanza nazionale di Israele, i club che appartengono alla sua federazione e quelli che intrattengono con quello stato (o con altri stati parimenti discutibili) dei rapporti, ad esempio, di sponsorizzazione: certo, non si possono escludere i club dalle competizioni internazionali, perché non si può presumere che tutti i suoi tifosi e la sua dirigenza appoggino la politica dello stato in cui sono ospitati… ma una rappresentativa nazionale rappresenta (appunto) quello stato diciamo così “per contratto” e quindi può e deve essere sanzionata; non accadrà mai vista la debolezza di quelle squadre, d’accordo, ma Israele che vince un mondiale è diverso dal Maccabi Haifa che vince la Champions League. Riguardo i club, poi, l’arma migliore per combattere questo genere di accordi “oscuri” è quella economica: se fai affari con individui poco “presentabili”, allora paghi di tasca tua.
"Mi piace""Mi piace"