Israele, Palestina e le contraddizioni politiche del calcio europeo

Il conflitto israelo-palestinese dura da decenni, eppure nel 2023 sembra aver raggiunto un livello di intensità del dibattito mai visto prima. La prospettiva del mondo del calcio non può che essere molto parziale e riduttiva rispetto alla complessità di ciò che sta avvenendo, ma può almeno fornire un piccolo esempio di come questo dibattito si sia radicalizzato, mettendo in crisi molti dei principi politici e dei valori che la società occidentale (e il suo sport) hanno sempre vantato. La tanto decantata separazione tra sport e politica si è infatti rivelata una volta di più del tutto inadeguata a rispondere alle necessità della società contemporeanea.

Un buon caso da cui iniziare è quello più recente di Anwar El Ghazi, attaccante olandese di origini marocchine licenziato dal Mainz il 3 novembre a causa delle sue posizioni filo-palestinesi. Il giocatore era già stato sospeso qualche settimana prima a causa di un post condiviso su Instagram che si concludeva con lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Questa frase, all’apparenza innocente, è in realtà considerata un reato d’odio contro Israele in Germania, poiché implicitamente nega l’esistenza dello stato: il territorio che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo è proprio quello occupato dallo stato ebraico. Si potrebbe sottolineare come, con il tempo, questo slogan abbia mutato di significato, e oggi spesso venga usato per indicare la liberazione della Palestina dalla Cisgiordania (nei pressi del Giordano) alla Striscia di Gaza (bagnata dal Mediterraneo). Ma questo discorso apre a contraddizioni ben più grosse: nell’altro conflitto più discusso del momento, quello in Ucraina, la parte che adesso sostiene Israele rivendica anche la legittimità dello slogan Slava Ukraïni!, originariamente usato dai nazisti ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale, ritenendolo ormai scollegato e reinterpretato politicamente per essere reso meno problematico. Per contro, la parte che adesso sostiene la Palestina rivendica che, siccome lo slogan un tempo aveva un significato nefasto, non possa essere “depurato” da esso in alcun modo. In pratica, chi oggi ritiene legittimo Slava Ukraïni! dovrebbe pensare lo stesso di From the river to the sea, e chi condanna il primo dovrebbe condannare anche il secondo.

Tornando al caso di El Ghazi, il giocatore ha chiarito di essere contrario a ogni forma di terrorismo e di avere a cuore solo la pace e i diritti della popolazione palestinese. Per quanto possa essere controverso lo slogan che ha ricondiviso, la sua opinione sul conflitto può essere criticabile ma dovrebbe essere considerata assolutamente legittima. A questo punto, come considerare la decisione del Mainz di licenziarlo? È accettabile, nell’Europa del XXI secolo, che una persona possa perdere il proprio lavoro per essersi espressa politicamente? È una questione che riguarda il diritto del lavoro, ma anche quello più ampio di libertà d’espressione. La FIFA e la UEFA, sempre molto attente nel rivendicare la separazione tra calcio e politica, non sono ancora intervenute sulla questione, sebbene si tratti chiaramente di un caso in cui una situazione politica – peraltro una presa di posizione personale e avvenuta sui social, quindi al di fuori degli ambiti in cui El Ghazi rappresenta pubblicamente il Mainz – ha ripercussioni dirette in termini sportivi.

Che alcuni valori occidentali siano un po’ venuti meno in queste settimane è purtroppo un fatto evidente. In Francia, Karim Benzema si è ritrovato accusato in diretta televisiva dal Ministro dell’Interno di essere legato ai Fratelli Musulmani, un gruppo fondamentalista islamico considerato da alcuni paesi un’organizzazione terroristica. Il Ministro non ha fornito prove di questi legami, da lui dati per scontati, e incalzato da RMC Sport il suo staff ha dovuto poi fare un elenco di episodi “dubbi” che hanno coinvolto il Pallone d’Oro del 2022, ma dovendo però ammettere che nessuna di queste cose è penalmente rilevante né esistono prove certe di rapporti tra Benzema e i Fratelli Musulmani. È accettabile che un Ministro, peraltro di un governo liberale tutt’altro che di estrema destra, vada in tv a fare simili affermazioni impunemente contro un cittadino francese, peraltro mettendone a repentaglio la sicurezza? Benzema gioca e vive infatti in Arabia Saudita, uno dei paesi che considera i Fratelli Musulmani dei terroristi. Sulla base di queste affermazioni del Ministro, la senatrice Valérie Boyer è arrivata addirittura a chiedere ufficialmente la revoca della cittadinanza all’attaccante transalpino. Inquieta che tutto questo caso sia scoppiato pochi giorni dopo che Benzema si era espresso a favore della causa palestinese.

Benzema è da tempo bersaglio di polemiche in Francia per le sue origini magrebine e la sua religione.

Ma la frattura più evidente è avvenuta tra due delle squadre (e tifoserie, soprattutto) simbolo del calcio “di sinistra”: Celtic e St. Pauli. Da un lato la Green Brigade, il gruppo ultras maggiormente impegnato in Europa nel supporto alla Palestina, e dall’altro il tifo tedesco con le sue complicate posizioni sul conflitto mediorientale. In Germania, parlare tranquillamente contro Israele non è mai una cosa semplice, nemmeno nelle tifoserie più schierate a sinistra. Il St. Pauli ha assunto una posizione molto cauta sul tema, ma pur sempre chiedendo la pace e cercando di non sbilanciarsi troppo, posizione che è stata duramente criticata di fan club stranieri, in particolar modo proprio quello di Glasgow. Ne è nato un confitto politico che è rapidamente degenerato, fino a richieste, da parte dei tifosi tedeschi verso il club, di cancellare l’affiliazione alla società dei gruppi stranieri. Un recente striscione ad Amburgo recitava “Da Gaza a Glasgow: combattere l’antisemitismo”, rivolgendo quindi un’accusa pesante agli scozzesi, che a loro volta hanno replicato con lo striscione “Fanculo St. Pauli! Liberare Amburgo dagli hipster!”.

Questo scontro è probabilmente la rottura più grande mai verificatasi all’interno di un club simbolo come il St. Pauli, ed è indiscutibile che l’immagine politica del club, specialmente fuori dalla Germania, ne sia stata fortemente compromessa. Va però considerato che, in tutto questo, la società amburghese non ha mai preso posizioni esplicitamente pro-Israele o contro la Palestina. La critica dei fan club stranieri è stata inizialmente focalizzata su un punto: esprimersi per la pace dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas e non essersi mai espressi in passato quando era la Palestina sotto attacco unilaterale da parte di Israele. Il concetto è sensato, ma fino a un certo punto: il non essersi espressi in precedenza su un tema non può diventare un ostacolo che preclude qualsiasi futura presa di posizione. Soprattutto quando essa non è in aperta antitesi con quella di chi critica, come in questo caso. Il conflitto tra Glasgow e Amburgo sembra tanto una gara di radicalità (per citare il fumettista Zerocalcare) in cui in palio c’è il titolo di simbolo del calcio di sinistra in Europa. Non si sta più parlando di Israele e di Palestina, ma esclusivamente di noi che dall’esterno osserviamo, giudichiamo, ci schieriamo e portiamo avanti una nostra guerra per procura. Nello specifico, va considerato anche una sorta di regolamento di conti tra i glasvegiani e i tifosi tedeschi in generale, da tempo noti per la loro ambigua posizione sulla guerra in Medio Oriente.

In tutto questo, praticamente chiunque sembra aver dimenticato che da anni il principale finanziatore di Hamas è il governo del Qatar, il paese che quasi un anno fa ha ospitato i Mondiali nel tripudio generale di tanti politici occidentali (pensiamo solo a Emmanuel Macron, per fare un esempio). Oggi, grazie anche allo status diplomatico rilevante ottenuto con l’appoggio di Gianni Infantino, il Qatar è il mediatore più importante nel conflitto israelo-palestinese. Un piccolo paese dominato da una famiglia reale nota per il suo governo dispotico e repressivo e che è il motivo principale per cui Hamas è ancora in piedi e in grado di organizzare azioni come quella del 7 ottobre, gode da qualche tempo di grande credito internazionale anche grazie al suo ruolo nel mondo del calcio, e nessuno sembra trovare contraddittoria questa situazione. Anni di legittimazione politica ed economica di Doha da parte dei paesi occidentali hanno indirettamente favorito Hamas mentre quegli stessi paesi dichiaravano la propria vicinanza a Israele. Allo stesso modo, in passato si sono fatti affari affari arricchendo la Russia, ben sapendo che Putin aveva ambizioni geopolitiche sull’Ucraina.

In ultimo, la situazione dell’ultimo mese in Israele e Palestina ha confermato di essere estremamente divisiva, ma anche relativamente fuori dal dibattito europeo. Nel Vecchio Continente se n’è parlato solo a causa delle prese di posizione di alcuni gruppi di tifosi noti per il loro interesse per le questione sociali (il tifo tedesco e quello del Celtic, poi pochi altri casi isolati), e da parte di alcuni calciatori, che però rispondono a due casistiche ben precise. Da un lato, solo i calciatori israeliani hanno preso posizione in favore del proprio paese (pensiamo ai casi di Manor Solomon e Daniel Peretz), mentre solo quelli arabi o musulmani sono intervenuti in favore della Palestina. Nessun giocatore al di fuori di loro si è espresso, praticamente nessun club ha preso una posizione, anche FIFA e UEFA sono state molto caute. Il confronto con la guerra in Ucraina – che aveva visto prese di posizioni più massicce, con bandiere ucraine o simboli di pace esposti su diversi campi europei – è in questo caso abbastanza squilibrato. Verrebbe da dire, alla fine, che all’Europa importa dell’Europa.

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