Niente neri nell’Argentina: il Mondiale negato di Alejandro de los Santos

Quando la federazione diffuse la lista dei convocati per l’Uruguay, stilata dai selezionatori Francisco Olazar e Juan José Tramutola, Alejandro de los Santos sapeva già che il suo nome non ci sarebbe stato. Era il primo Mondiale di calcio della storia, e l’Argentina aveva tutta l’intenzione di vincerlo, presentandosi al torneo come vincitrice delle ultime due edizioni della Copa América. Ma per De los Santos, che all’epoca aveva 28 anni ed era all’apice della carriera, quella fu una grande delusione, e la motivazione non poteva che essere una, la stessa che da qualche tempo aveva convinto i selezionatori dell’Albiceleste a tenerlo fuori dalla nazionale a dispetto delle sue qualità: era nero, e nessuno voleva dare l’idea, al paese e al resto del mondo, che l’Argentina fosse un paese di neri.

Eppure, sebbene nascosti e marginalizzati, essi c’erano. I genitori di De los Santos erano nati in Angola, figli di schiavi come praticamente tutta la popolazione della colonia portoghese. Nel 1869, Stati Uniti e Regno Unito avevano deciso di abolire definitivamente la tratta degli africani, e così anche il Portogallo aveva dovuto rinunciare alla schiavitù: negli anni successivi, questo diede impulso a una forte emigrazione di neri dalle colonie portoghesi in Africa – in particolare Capo Verde, São Tomé e Angola, che si affacciano sull’Atlantico – verso il Sudamerica. L’Argentina, grande ma sottopopolata, era divenuta subito una delle mete favorite, anche in virtù delle nuove politiche volte a incentivare l’immigrazione (europea, nei piani dei legislatori di Buenos Aires). Non si sa da dove sia uscito il cognome De los Santos, se fosse una spagnolizzazione del portoghese Dos Santos o piuttosto un nome scelto una volta in Argentina, ma possiamo immaginare il mondo che trovò, al suo arrivo, quella coppia angolana: un paese libero e in cui si poteva lavorare, ma in cui i neri dovevano stare lontani dai bei quartieri delle grandi città della costa. I De los Santos risalirono il fiume Paraná diretti verso l’entrotetta, stabilendosi in una città che prendeva il nome proprio dal corso d’acqua: lì, il 17 maggio 1902, nacque Alejandro Nicolás de los Santos.

Della sua infanzia non si sa praticamente nulla. A un certo punto, probabilmente già nel 1908, rimase orfano di entrambi i genitori, e assieme ai fratelli – Manuel e Mercedes, più grandi di lui – si dovette trasferire a Boedo, un quartiere popolare alla periferia di Buenos Aires, all’epoca in grande espansione. Crescere a Boedo significava sostanzialmente due cose, all’epoca: la prima era venire a contatto con un ambiente culturale caratterizzato da molti afroargentini, in cui spopolava il candombe. La seconda, invece, era il calcio, perché proprio lì giocava, dal 1916, il San Lorenzo, nato nel 1908 nel limitrofo barrio di Almagro. All’età di soli 12 anni, Alejandro De los Santos era entrato a giocare nel piccolo Club Oriente del Sud, dove rimase fino al 1921, quando venne scoperto e ingaggiato proprio dal San Lorenzo, dove all’epoca giocava in attacco Rafael Calvo. Restò però solo una decina di partite con il Ciclón, per poi trasferirsi nel quartiere accanto, Avellaneda, per vestire la maglia del Dock Sud, una piccola squadra di immigrati. Qui, De los Santos si rivelò un attaccante estremamente prolifico, e grazie alle sue reti già quell’anno il Dock Sud poté centrare una sorprendente promozione in Primera División.

In breve, si sparse voce in tutta Buenos Aires di quel ragazzo nero fosse uno dei migliori attaccanti della regione. Nel 1922, la commissione tecnica federale che dirigeva la nazionale decise di convocarlo: un evento storico, per un ragazzo con la pelle così scura, ma figlio di un’Argentina in piena epoca di rinnovamento. L’Unión Cívica Radical di Hipólito Yrigoyen stava portando avanti un programma riformista incentrato sull’allargamento dei diritti civili, e in quest’ottica un nero in nazionale era, per quanto insolito, di certo in linea con lo spirito del tempo. Nello stesso periodo, a Boedo emergeva un gruppo di giovani artisti – poeti, musicisti e pittori – avanguardisti e connotati da forti ideali di sinistra, che emergevano anche dalla loro produzione, e che contribuirono a segnare questi anni di crescita sociale. In parallelo a tutto questo, i crescenti successi in campo di De los Santos lo portarono a trasferirsi nel 1924 in un altro club di Avellaneda, anch’esso contraddistinto da una profonda anima di sinistra: il Porvenir, fondato nove anni prima da un gruppo di giovani militanti anarchici del quartiere.

La formazione del Porvenir del 1927: De los Santos è facilmente identificabile, e la foto chiarisce come fosse nero e non, come si sarebbe detto in seguito, un mulatto.

Il periodo trascorso al Porvenir fu senza dubbio il più importante per la carriera di De los Santos: al suo arrivo nel nuovo club, la punta afroargentina si trovò a giocare in attacco con uno dei più importanti calciatori del paese, Manuel La Chancha Seoane. Le circostanze che avevano condotto il fenomenale attaccante dell’Independiente nel piccolo club degli anarchici erano uniche: squalificato per un anno nel 1923 dopo uno scontro con un arbitro, Seoane aveva deciso di accordarsi con il Porvenir approfittando del fatto che, in quegli anni, il calcio argentino stava vivendo un grande scisma tra il campionato organizzato dall’AAF e quello della federazione dissidente AAmF. Il Porvenir, a differenza dell’Independiente, aveva aderito al torneo dell’AAF, nel quale le squalifiche comminate nell’altro campionato non avevano valore. La scelta ricadde sul club bianconero perché aveva sede nello stesso quartiere in cui era cresciuto Seoane, che alla scadenza dell’inibizione decise di restare un’altra stagione nella squadra degli anarchici. Con La Chancha e De los Santos in attacco, il Porve visse la più grande stagione della sua storia, chiudendo al terzo posto in classifica.

Ormai entrato nel giro della nazionale, e forte di questo eccellente risultato, De los Santos venne scelto dal ct Ángel Vázquez per rappresentare l’Argentina al Campeonato Sudamericano del 1925. A causa della concorrenza nel ruolo di Juan Carlo Irurieta come centravanti, la punta afroargentina scese in campo solo nell’ultimo incontro del torneo, quello del decisivo 2-2 contro il temibile Brasile di Arthur Friedenreich, che garantì all’Albiceleste il secondo titolo continentale della sua storia. Era all’apice della carriera, e gli anni successivi lo videro confermarsi come uno dei principali giocatori del campionato argentino, nonché come la stella del Porvenir in quello che sarà il miglior periodo della storia del club, realizzando in tutto 80 gol in 148 partite in maglia bianconera. Purtroppo, il ritorno di Seoane all’Independiente e la riunificazione dei campionati ebbero come conseguenza un’indebolimento della squadra rispetto alle altre grandi potenze dell’epoca, su tutte il Boca Juniors, vera potenza argentina della seconda metà degli anni Venti.

Forse questo influì sulla sua esclusione dalla rosa finale dei convocati per il Mondiale del 1930, dato che proprio dalla conquista del Campeonato Sudamericano di cinque anni prima De los Santos non era più stato chiamato a rappresentare l’Argentina. Olazar e Tramutola, d’altronde, potevano fare affidamento su un parco attaccanti di primissimo livello, e nel ruolo di centravanti fugurava il bomber dell’Huracán Guillermo Stábile: lo stesso Seoane, ormai da un anno, era stato sorpassato dalla nuova generazioni di attaccanti argentini. Ma nella famiglia di De los Santos circolò sempre la convinzione che, se avevano smesso di chiamarlo in nazionale e non lo avevano portato al Mondiale, un po’ si doveva anche al colore della sua pelle. Un dettaglio che stava tornando ad avere rilevanza, nell’Argentina di fine decennio, in cui la crisi economica stava facendo riemergere divisioni sempre più feroci. A settembre di quell’anno, appena due mesi dopo la finale mondiale persa contro l’Uruguay, il paese venne sconvolto da un golpe militare, che condusse al potere il generale fascista José Félix Uriburu.

Il nazionalismo argentino e la volontà di autorappresentarsi come una nazione bianca tornarono a prevalere a livello politico, mentre per le strade scoppiava la violenza della Decada infame. Che De los Santos abbia subito, nel corso della sua vita, vari episodi di razzismo, è abbastanza appurato, ma quanto questi possano aver influito sulla sua mancata convocazione ai Mondiali è difficile dirlo. Di sicuro, il 1930 non fu la fine della sua carriera ad alti livelli. Un anno dopo, con il passaggio al professionismo del calcio argentino, la punta nativa di Paraná si trasferì a giocare all’Huracán, sostituendo proprio Stábile nell’attacco del Globo, dopo che la punta della nazionale era passata al Genoa. Insieme a lui, per rinnovare il fronte offensivo del club di Parque Patricios, era arrivato dal Platense il 21enne Herminio Masantonio, destinato a diventare una leggenda della squadra. In quattro stagioni con la maglia dell’Huracán, Alejandro De los Santos realizzò 25 reti in 88 partite, anche se la squadra non riuscirà mai a ottenere grandi successi, fermandosi al massimo all’ottavo posto in classifica. Nel 1934, infine, decise di appendere gli scarpini al chiodo.

L’Argentina che conquistò il titolo sudamericano del 1925. Anche qui, De los Santos è facilmente identificabile nella rosa.

Negli anni successivi, svolse occasionalmente il ruolo di allenatore, sempre nell’Huracán, e in questa veste nel 1946 consacrò il talento del ventenne Alfredo Di Stéfano, alla sua prima stagione da titolare in un club professionistico, in prestito dal River Plate. Del resto della vita di Alejandro De los Santos, però, si sa molto poco, se non che lavorò soprattutto come funzionario della dogana e che come hobby amava impagliare uccelli. Al di fuori dell’ambito del Porvenir venne però rapidamente dimenticato dal calcio argentino. Se il razzismo non ebbe un ruolo determinante nella sua esclusione dalla nazionale, certamente lo ebbe sul lungo oblio a lui dedicato nella storia sportiva del paese, con la sua vicenda che è stata riscoperta solo in anni recenti. Essere neri in Argentina, come si è già scritto, significava marginalizzazione sociale, e se per i calciatori di talento si poteva fare un’eccezione, una volta smesso di essere idoli delle folle si tornava al solito destino di tutti gli altri afroargentini.

Il culto della blaquitud affiora anche nella storia di De los Santos: figlio di immigrati africani, finì a sposare una donna bianca, l’immigrata spagnola Margarita Calvo, di due anni più giovane di lui, dalla quale ebbe poi sette figli (Antonia, Irene Haydée, Margarita, Mercedes Esther, Delia, Elvira e Alejandro Manuel). Dalle foto dell’epoca e anche da quelle più recenti, come quella della cerimonia per l’intitolazione di un piccolo campo a Buenos Aires nel 2014, si nota abbastanza bene come le figlie di De los Santos siano donne mulatte, di cui a prima vista difficilmente si sospetterebbe l’origine africana. La storia del primo nero ad aver vestito la maglia dell’Albiceleste si è conclusa il 16 febbraio 1982, con la morte a 79 anni, a Buenos Aires. Ma da allora è iniziata la sua riscoperta.

Fonti

ARAF Jo, Alejandro de los Santos, simbolo afroargentino, Game of Goals

GUICHENDUC Guido, Biografia del máximo idolo de El Porvenir a 113 años de su natalicio, Soy del Porve

IGLESIAS Waldemar, Alejandro de los Santos, el primer crack negro que jugó para la Selección argentina, Clarín

MERLO Cesar, De los Santos, el único futbolista de raza negra que jugó en la Selección, TyC Sports

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