I Mondiali in Qatar sono iniziati da una settimana, e si è già fatto il pieno di polemiche (fortunatamente). Tuttavia dai confronti sui social sono emersi alcuni temi e domande che forse meritano una risposta, che ovviamente non è LA RISPOSTA – nel suo senso assoluto e definitivo – ma solo un’opinione del sottoscritto su quanto sta avvenendo e su legittimi dubbi o questioni attorno a Qatar 2022. Un tentativo di fare un ragionamento coerente in merito ad alcune critiche rivolte a chi – calciatori in primis, ma non solo – ha denunciato i problemi sociali del Qatar e del torneo.
Bisogna rispettare la cultura del Qatar
Lo ha detto la FIFA, lo ha ribadito Hugo Lloris, lo stanno dicendo in tanti sui social network. Questo aspetto ha sicuramente un fondo di verità: le tematiche relative ai diritti umani, LGBTQ+ in particolare, sono essenzialmente frutto della cultura occidentale, ed è comprensibile che un qatariota possa ritenere la nostra difesa di questi diritti come un’imposizione esterna, da parte di quelle popolazioni che da secoli colonizzano il mondo. Dopodiché subentra la propaganda, che il Qatar fa tanto quanto facciamo noi: i diritti LGBTQ+ saranno anche una conquista occidentale, ma le persone omosessuali esistono anche in Qatar, e sappiamo che soffrono per la repressione del regime degli Al Thani. Quindi non è che ogni qatariota aderisce perfettamente a questa cultura omofoba: il Qatar vuole trasformarla in una battaglia “noi-contro-loro”, ma in realtà sta combattendo contro i suoi stessi cittadini, ridotti al silenzio.
Stesso discorso che potremmo fare per i diritti dei lavoratori: altra conquista occidentale (almeno in teoria), ma sappiamo benissimo che i lavoratori migranti sfruttati ed emarginati dalla società qatariota non sono affatto contenti di questo trattamento. Dire che queste denunce siano un tentativo di imporre la nostra cultura al Qatar significa fare finta che non esistano persone, in quel paese, che stanno soffrendo per questo motivo, e a cui il governo locale locale nega la parola. Significa, in definitiva, abbracciare la propaganda di Doha su questo “scontro di civiltà” tra Occidente e mondo arabo, rinunciando a difendere le vittime del loro sistema.
Noi occidentali siamo ipocriti, perché ce la prendiamo col Qatar quando anche da noi si violano i diritti umani
Certo, lo sfruttamento dei lavoratori, le morti nei cantieri, l’omofobia e il sessismo esistono anche in Occidente. Ma, ancora, evitiamo di trasformare tutto in uno scontro di civiltà: l’Occidente – così come il Qatar o il mondo arabo – non è un soggetto unico. Amnesty International denuncia le violazioni dei dirtti umani in Qatar, ma anche in Italia o negli Stati Uniti. È pieno di attivisti, nei nostri paesi, che protestano per i crimini che avvengono qui, e sono spesso le stesse persone che si stanno lamentando per le politiche del Qatar. Non è che il solo fatto di essere nati in un paese europeo ci rende corresponsabili dei problemi di quel paese. Inoltre il discorso sull’ipocisia diventa sempre molto comodo per annullare ogni forma di protesta sociale: siccome nessuno è infallibile e tutti nascondono delle contraddizioni, allora nessuno può più criticare nessuno. La diretta conseguenza di tutto ciò è che ogni crimine diventa legittimo: domani posso scendere in strada e sparare a qualcuno, e voi non avete alcun diritto di giudicarmi, perché non mi risulta abbiate detto qualcosa su quell’attentato avvenuto in Pakistan qualche anno fa.
Queste proteste (tipo mettersi la mano sulla bocca) non servono a nulla: bisogna fare di più
Sul ruolo dei calciatori un po’ ho già risposto nell’ultimo episodio del podcast (che vedete qui sopra), oltre che su un articolo uscito su L’Ultimo Uomo, ma proviamo a estendere il concetto. “Di più” cosa? Ma soprattutto, a chi si sta parlando? Perché noi, come individui, calciatori compresi, possiamo fare molto poco per incidere concretamente sulle leggi di una monarchia assoluta della Penisola araba. Bisognava boicottare, si dice: ma un gesto del genere, per quanto forte, non avrebbe cambiato le cose in Qatar. Il Mondiale sarebbe stato un fiasco, la FIFA probabilmente sarebbe dovuta venire a patti col fatto che in certi posti non va organizzato un evento, ma tutto questo è un discorso limitato a noi occidentali (qui sì che un po’ di ipocrisia potremmo trovarcela). La nostra coscienza collettiva sarebbe stata salva, ma cambiare le cose per chi oggi in Qatar soffre per le leggi del regime è tutto un altro discorso.
Ed è un discorso difficile da affrontare, se lo condieriamo chiuso al mondo del calcio. Il regime di Doha è legittimato da accordi politici ed economici con molti paesi occidentali, che fanno finta di nulla sulle gravi violazioni dei diritti umani in Qatar: per cambiare le cose si potrebbe iniziare a fare pressione sui nostri governi per isolare il Qatar (come è stato fatto, più o meno, con l’Iran). Da questo punto di vista, andare al Mondiale e portare lì delle proteste, per quanto piccole, è un modo per parlare di questi temi e creare un po’ di sensibilità, magari anche tra i politici di questa parte del mondo.
Anche in Italia muoiono migliaia di persone sul lavoro, perché il Qatar fa così scandalo?
Sì, anche in Italia queste cose succedono. Secondo i dati Inail, nel 2020 ci sono stati 1.538 morti sul lavoro, 1.205 nel 2019, e 1.279 nel 2018. Non è difficile immaginare che, con un simile trend, nel periodo in cui in Qatar si organizzavano i Mondiali in Italia morivano nei cantieri ben più delle 6.500 persone stimate nel febbraio 2021 dal Guardian. Quindi l’Italia è peggio del Qatar, da questo punto di vista? Senza sminuire il dramma delle morti sul lavoro nel nostro paese, la risposta è: assolutamente no.
Primo, per una ragione che è proprio numerica. La popolazione del Qatar è 2,9 milioni di persone: se la stima del Guardian è corretta, stiamo parlando di un morto ogni 446 persone. In Italia siamo 59 milioni: questo dà l’idea, spero, della realtà del problema del Qatar. Senza contare che, come più volte spiegato, il punto non sono tanto le morti, ma lo sfruttamento atroce che subiscono i lavoratori migranti in Qatar, spesso con il via libera delle leggi locali. In Italia, solo in alcuni (ancora troppi) contesti avvengono cose simili, mentre in Qatar la situazione è generalizzata. Da noi, esistono vie d’uscita: rivolgersi ai sindacati, riuscire a denunciare e portare in tribunale i tuoi sfruttatori. Tutte cose che in Qatar non sono letteralmente possibili. Ciò che da noi sono casi limite lì è la condizione base del lavoro. Sono entrambi due problemi gravi, ma non possono essere messi sullo stesso piano.
Non ha alcun senso portare il Mondiale in un paese senza tradizione calcistica
Questa considerazione, molto diffusa, è quella che capisco meno. Prima di tutto perché portare il Mondiale in un paese con scarsa tradizione può essere un modo per facilitarne lo sviluppo. Secondariamente, questa storia della “tradizione” riflette un pregiudizio molto eurocentrico: in Qatar si gioca a calcio almeno dagli anni Cinquanta, nel 1981 la Nazionale faceva una finale del Mondiale U20; non è un paese dove si è scoperto il pallone l’altro ieri. Noi europei tendiamo a pensare che, fuori dal nostro continente e dal Sudamerica, sono tutti calcisticamente analfabeti, quando è tutt’altro che così. Ma soprattutto, con tutto ciò che di problematico sta attorno a questa Coppa del Mondo, chi se ne importa della tradizione.
Non vedo l’ora che il Mondiale finisca…
Non è una domanda, ma è comunque una cosa che si sente e legge spesso. Dal 19 dicembre il mondo tornerà a ruotare nel senso giusto, no? Ovvio che no. I problemi rimangono. La Supercoppa italiana e quella spagnola sono ormai fissi in Arabia Saudita, un paese che ha gli stessi problemi del Qatar (se non peggiori). Sempre più spesso, organizzazioni come FIFA e UEFA (ma pure il CIO e le federazioni di altri sport) stringono accordi di questo tipo con paesi non democratici e che violano i diritti umani su larga scala (gli Europei dell’estate 2021 hanno avuto, tra le varie sedi, Russia, Azerbaijan e Ungheria). Quindi il problema supera i confini dei Mondiali del 2022, e riguarda tutta la nostra società, il modo in cui viene gestita l’economia e, per estensione, il potere.