Il cameraman si infiltrò con agilità tra i festeggiamenti all’interno dello spogliatoio degli ospiti dello stadio Al-Merrikh di Omdurman, in Sudan. Quando se ne accorse, Didier Drogba, 27enne attaccante del Chelsea e tra i più noti calciatori al mondo, si fece dare il microfono dal giornalista e catturò l’attenzione della videocamera. “Uomini e donne della Costa d’Avorio – disse, visibilmente emozionato – del Nord, del Sud, del Centro, dell’Ovest. Abbiamo dimostrato oggi che gli ivoriani possono coesistere e lottare assieme condividendo un obiettivo, la qualificazione ai Mondiali. Vi preghiamo in ginocchio: per favore, abbassate le vostre armi e organizzate delle elezioni!”.
Da circa sei anni, la Costa d’Avorio era nel caos. Nel 1999, il generale Robert Guéï aveva abbattuto il corrotto governo di Henry Konan Bédié, aveva fatto promulgare una nuova Costituzione e aperto a nuove elezioni, che però erano state pesantemente influenzate da tentativi di brogli da parte sua, che erano risultati in scontri e quasi 200 morti. Il popolo aveva eletto, tra le proteste, il suo rivale socialdemocratico Laurent Gbagbo, ma tutto il nord del paese si era schierato con il liberale Alassane Ouattara, a cui non era stato permesso di partecipare alle elezioni. La tensione crebbe fino a che, nel 2002, gruppi ribelli presero il controllo dei territori settentrionali, dando il via a una guerra civile rinfocolata dall’intervento di milizie irregolari dai paesi limitrofi. Nonostante un tentativo di raggiungere una tregua, un anno dopo, il conflitto era ripreso: alla sua radice non c’era tanto la questione elettorale, ma la rivalità etnica tra il Sud cristiano – politicamente dominante grazie alla politica dell’Ivorité di Bédié, ed economicamente più sviluppato grazie alle piantagioni di cacao – e il Nord musulmano, composto in buona parte da persone immigrate dal Burkina Faso.
La Costa d’Avorio non è il tipico paese africano, almeno non nello stereotipo che abbiamo in testa noi europei. Per la media degli stati dell’Africa occidentale, ha un alto livello infrastrutturale, una distribuzione della ricchezza nella media mondiale (al momento dello scoppio della guerra, il suo coefficiente di Gini era 41.3, non troppo più alto di quello dell’Italia, 34.9) ed è il primo produttore mondiale di cacao. Qui, il tasso di povertà è più contenuto che nelle altre nazioni limitrofe, e questo ha favorito una lunga storia d’immigrazione, che ha avuto come conseguenza la crescita delle tensioni etniche e del nazionalismo. Ma quando Drogba, nel suo discorso alla nazione, diceva “L’unico paese in Africa con così tanta ricchezza non deve scivolare nella guerra” pensava anche a questo.
La Nazionale di calcio ha sempre avuto una storia complicata, non in linea con le grosse potenzialità economiche del paese. Gli Éléphants sono rimasti sostanzialmente ai margini del calcio internazionale fino al 1992, quando hanno conquistato a sorpresa la loro prima Coppa d’Africa con una rosa allenata da un tecnico locale, Martial Yeo, e fondata sulle squadre dell’Africa Sports e dell’ASEC Mimosas, le due principali scuole calcio del paese. Queste due società, entrambe provenienti dalla metropoli meridionale di Abidjan, hanno segnato il rapido sviluppo del calcio ivoriano lungo tutti gli anni Novanta, lanciando giocatori come Kolo e Yaya Touré, Emmanuel Eboué, Bonaventure Kalou e Didier Zokora, la generazione d’oro che nel 2006 tornerà dopo 14 anni alla finale continentale e disputerà per la prima volta il Mondiale.
Drogba è un’eccezione, perché pur essendo nato ad Abidjan è cresciuto in Francia, dove la sua famiglia ha trovato appoggio dallo zio Michel Goba, ex-calciatore del Dunkerque a fine anni Ottanta. Nel 2004 ha vissuto una stagione sensazionale, segnando 32 reti e trascinando l’Olympique Marsiglia alla finale di Coppa UEFA; quindi il Chelsea di Mourinho ha pagato 34 milioni di euro per averlo nella sua rosa. In quel periodo, si è affermato come uno dei calciatori più forti del continente e del mondo, arrivando per tre anni consecutivi secondo dietro il camerunense Eto’o nella classifica del Pallone d’Oro africano (superando leggende locali come Youssouf Falikou Fofana e Laurent Pokou), e poi conquistando il titolo nel 2006, primo ivoriano della storia a ricevere il riconoscimento più prestigioso del calcio continentale.
Le sue parole, quasi da leader politico, spinsero entrambe le fazioni a incrontrarsi e accordarsi per un cessate il fuoco. Dopo la conquista del titolo di calciatore africano dell’anno, Drogba organizzò una sorta di tournée in giro per tutta la Costa d’Avorio, in particolare per le regioni ribelli del Nord, e proprio nella roccaforte Bouaké annunciò che lì si sarebbe giocata la successiva partita ufficiale della Nazionale, come segno di riappacificazione tra le due parti del paese a lungo divise dalla guerra. Il match del 3 giugno 2007 contro il Madagascar si concluse con una clamorosa vittoria per 5-0 con doppietta di Arouna Koné e reti di Drogba, ovviamente, e Yaya Touré, nativo proprio di Bouaké. Sotto il profilo simbolico, l’evento fu senza dubbio di grandissimo impatto: la Costa d’Avorio rinasceva sotto il patrocinio di una generazione di calciatori sensazionali e pienamente ivoriani (mentre sempre più spesso le nazionali africane si affidavano a calciatori francesi figli d’immigrati, sul modello del Senegal del 2002), formati nelle scuole calcio locali e che rappresentavano le grandi potenzialità di un paese che si candidava a essere un esempio per tutta l’Africa.
Circa un mese dopo la partita col Madagascar, il presidente Gbagbo e il neo-Primo Ministro Guillaume Soro, che era stato il leader dei ribelli, si presentarono insieme nel Nord per una più ufficiale cerimonia di riappacificazione, durante la quale vennero bruciate delle armi per simboleggiare la fine del conflitto. Gbagbo tenne un discorso in cui confermò che in Costa d’Avorio era ormai tornata la pace, e annunciò che la promessa di nuove elezioni sarebbe stata mantenuta. Il voto a cui si erano appellati i calciatori era quello che ufficialmente si sarebbe dovuto tenere nel 2005, e che dopo il messaggio di Drogba era stato garantito per il 2006; poi Gbagbo aveva deciso di posticiparlo all’ottobre del 2007, ma alla cerimonia con Soro aveva sostenuto che le elezioni si sarebbero tenute solo nel 2008. Ovviamente, in quell’anno non si tenne nessun voto. Le tensioni crebbero, fino a che il presidente non fu costretto a ufficializzare le elezioni per il 2010, nell’anno degli storici Mondiali africani, e a concedere la candidatura a Ouattara, il politico amatissimo nelle regioni settentrionali e finora sempre escluso dalla corsa elettorale.
Quando finalmente si poté votare, il clima era molto diverso rispetto a quello della pace del 2005, soprattutto nel calcio: la Nazionale aveva deluso nelle due campagne continentali del 2008 e del 2010, chiudendo prima quarta, travolta in semifinale dall’Egitto, e poi fermandosi solo ai quarti di finale, battuta dall’Algeria. Ai Mondiali in Sudafrica, il sorteggio mise gli ivoriani in un girone di ferro con Brasile e Portogallo, dal quale vennero eliminati per un solo punto, fallendo la qualificazione in un torneo dalla valenza simbolica enorme per tutte le compagini africane. In ottobre, le elezioni attirarono attorno a sé delle aspettative su cui stavolta lo sport non avrebbe potuto avere grande influenza, e quando Gbagbo denunciò dei brogli che avevano favorito la vittoria di Ouattara, le violenze ripresero. Entrambi i contendenti si proclamarono presidenti in due diverse zone del paese, uno al Sud e l’altro al Nord, e alla fine Ouattara, che aveva il supporto della comunità internazionale, incitò i suoi sostenuitori a marciare su Abidjan e assediare il palazzo del governo. La Costa d’Avorio era di nuovo in guerra civile: la speranza nata dalla qualificazione al primo Mondiale della sua storia si era presto esaurita, dimostrando che lo sport può accendere una fiamma, ma mantenerla viva è compito di altri.

La nuova guerra in Costa d’Avorio si concluse nell’aprile 2011 con l’arresto di Gbagbo, che venne poi condannato all’Aia per crimini contro l’umanità, e un conto di almeno 3.000 morti nel giro di pochi mesi. Eletto presidente con piena legittimità, Ouattara annunciò l’inizio di una nuova epoca per il paese, a partire dalla ricostruzione dell’economia dopo la pesante crisi dovuta a circa un decennio di conflitto interno. Il suo mandato presidenziale venne incarnato dalla conquista della seconda Coppa d’Africa della storia, ottenuta nel 2015. Ma ormai la generazione d’oro di Drogba, che seppure per un istante aveva fermato la guerra, era alle spalle: l’attaccante che aveva simboleggiato quella squadra aveva 37 anni e sulla via del tramonto, e del resto della squadra erano rimasti solo i due fratelli Touré. Quella generazione e tutte le sue speranze, sportive e politiche, si erano arenate a Libreville, in Gabon, nel febbraio 2012, sconfitte nella finale continentale dalla sorpresa Zambia, e avevano così segnato la fine di un’epoca.
È difficile dire oggi se la Costa d’Avorio sia effettivamente un paese diverso. Nel 2016 sono iniziate a emergere le responsabilità del governo francese nell’aver aiutato i mercenari stranieri e i ribelli contro Gbagbo, accusato di voler disancorare il suo paese da Parigi e dai suoi interessi economici. All’ombra del mai domo imperialismo europeo, Ouattara è riuscito a modificare la costituzione per garantirsi un terzo mandato presidenziale, ottenuto nel 2020 in elezioni farsa disertate dall’opposizione, e dopo le quali una dozzina di esponenti rivali sono stati arrestati con l’accusa di complottare contro lo stato. Il calcio, oggi, non parla più di politica: la Nazionale ha mancato le qualificazioni ai Mondiali del 2018 dopo tre partecipazioni consecutive, e salterà anche il torneo di Qatar 2022; le ultime due edizioni della Coppa d’Africa sono state disastrose (nel 2017, da campioni in carica, gli Éléphants, uscirono addirittura al primo turno), e non ci sono grandi speranze per l’edizione attuale. Si sente, in tutti i sensi, la mancanza di uno come Didier Drogba.
Fonti
–Drogba e la pace in Costa d’Avorio. Una favola senza lieto fine, Calcio Romantico