Il calcio italiano non ha la minima idea di cosa fare contro violenza sulle donne

Una maglia speciale, i capitani che leggeranno una poesia, un pallone rosso: sono queste le idee messe in campo dalla Serie A e dalla Serie B per questa giornata dei campionati, per sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne dopo il drammatico caso del femminicidio di Giulia Cecchettin. Sia chiaro: queste iniziative, per quanto simboliche, è tendenzialmente sempre meglio farle che non farle, e di certo non ci si può attendere che sia il calcio a risolvere i problemi sociali del paese. Bisogna però anche riconoscere che esiste una fastidiosa stereotipizzazione nel modo in cui il principale sport italiano si confronta con questa e altre tematiche, che finisce per farne emergere l’assoluta vacuità, soprattutto davanti a casi di cronaca così sconvolgenti.

La sensazione è che nessuno, nei gruppi dirigenziali delle due leghe professionistiche, sappia realmente di cosa sta parlando, e che queste iniziative siano solamente un riflesso condizionato. Ricordate cosa accadde quattro anni fa, con la celeberrima campagna della Serie A contro il razzismo che utilizzava come simbolo l’immagine di tre scimmie? Iniziativa lodevole negli intenti, ma evidentemente ben poco ragionata nei contenuti: a nessuno in Lega era venuto il sospetto che usare delle scimmie per un’iniziativa contro il razzismo fosse un messaggio facilmente fraintendibile. Finì che anche due club, Roma e Milan, presero le distanze dalla campagna e alla fine la Serie A dovette scusarsi e cancellarla, dopo che la polemica aveva fatto il giro del mondo a causa delle critiche della stampa estera. Nel frattempo, nessuna concreta contromisura è stata adottata per tutelare i giocatori vittime di razzismo in campo, per interrompere le partite e individuare e sanzionare i colpevoli. Anzi, siamo arrivati l’anno scorso a vedere giocatori ammoniti dagli arbitri per aver reagito alle discriminazioni. Questo è, nel migliore dei casi, mero attivismo performativo; nel peggiore, siamo davanti a persone tragicamente convinte di stare realizzando azioni con ricadute positive concrete in ambito sociale.

Con la violenza sulle donne, purtroppo, le cose non sembrano essere molto diverse: le campagne sono reazioni d’istinto che possono andar bene solo se accompagnate da una reale presa di coscienza del problema. Nello specifico, se i club di Serie A e B sono favorevoli al contrasto della violenza sulle donne, quale linea di condotta intendono seguire nei confronti dei giocatori accusati, quando non proprio condannati, di questo tipo di azioni? Demba Seck del Torino ha diffuso a dei suoi conoscenti un video intimo dell’ex-fidanzata dopo che lei lo aveva lasciato, e ha evitato il processo grazie al pagamento di un risarcimento alla ragazza: ha senso che questo giocatore e la società che lo continua a schierare in campo si facciano portavoci di un messaggio contro la violenza sulle donne? Ma potremmo citarne altri: Albert Guðmundsson è sotto indagine in Islanda per molestie sessuali; da quando è stato denunciato non viene più convocato in nazionale ma nel frattempo gioca regolarmente nel Genoa. Nahitan Nández è stato denunciato per violenze fisiche e psicologiche dalla ex-compagna, contro di lui è stato spiccato un mandato d’arresto in Uruguay a fine 2021, ma il centrocampista è rimasto in libertà perché si trovava in Italia e ha continuato normalmente a giocare nel Cagliari per tutti questi anni, fino a che lo scorso agosto non ha pagato la donna per ritirare le accuse. Per non parlare di Manolo Portanova, condannato in primo grado a 6 anni per stupro nel dicembre 2022, ma tornato a giocare da qualche mese, dopo il trasferimento alla Reggiana.

Ovviamente il nostro sistema prevede, com’è giusto che sia, tre gradi di giudizio fino al termine dei quali una persona è innocente davanti alla legge. Ma non si può fare finta che non ci sia un’evidente contraddizione tra manifestare contro la violenza sulle donne e poi ignorare del tutto casi come questi. Nessuno dei club citati sopra si è espresso sull’opportunità di far giocare o meno questi calciatori, limitandosi a fare finta di nulla. L’unica eccezione è la Reggiana, il cui presidente Carmelo Salerno ha difeso l’ingaggio di Portanova dicendo che i giocatori non sono tenuti a essere modelli di comportamento. Si può essere d’accordo o meno con lui, ma almeno non ha fatto finta che non ci fosse un problema e che il suo club non dovesse dare una risposta in merito. A questo punto, però, sarebbe coerente, da parte del club emiliano, rifiutarsi di giocare con il pallone rosso o di prendere parte a qualsiasi altra iniziativa sociale, che smentirebbe la linea sostenuta dal suo presidente: se i calciatori non sono modelli di comportamento, allora non ha senso che prendano parte a questo tipo di campagne.

Cristiano Ronaldo con il segno rosso contro la violenza sulle donne, ai tempi in cui giocava nella Juventus. Nel 2017 era stato accusato di stupro negli Stati Uniti, e Der Spiegel rese pubblico un documento in cui il calciatore ammetteva ai suoi avvocati che l’accusatrice aveva espressamente negato il consenso a un rapporto sessuale. Siccome il documento era stato ottenuto da degli hacker, non venne ritenuto ammissibile come prova, e le accuse caddero.

Di fatto, il calcio italiano vuole tutti i privilegi – in termini di immagine – dello schierarsi in favore di una causa sociale, senza però assumersene le responsabilità. La violenza sulle donne è un problema che lo sport riconosce, ma non come proprio, bensì collocandolo al di fuori di sé. Vuole essere maestro, e non accetta di essere invece parte in causa. C’è, in generale, una totale sottovalutazione delle responsabilità del mondo del calcio in comportamenti che, a livello culturale (e non necessariamente individuale, sia chiaro), pongono le basi per episodi di esplicita violenza nei confronti delle donne. Il sessismo generalizzato in questo sport, soprattutto nel nostro paese, dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: è quella che viene chiamata “cultura dello stupro”, un tema su cui qui si è spesso scritto ma che purtroppo è ancora largamente ignorato.

Nei giorni scorsi, un bravo e noto giornalista come Giuseppe Pastore è intervenuto a Cronache di Spogliatoio citando proprio il caso di Giulia Cecchettin e dicendo che lo sport “insegna come nessun’altra cosa ad assorbire un rifiuto”, alludendo ovviamente all’incapacità di Filippo Turetta di gestire la fine della sua relazione con la ragazza che ha poi assassinato. Lo so che è bello pensare che lo sport abbia il potere di indicare la strada giusta alla società, grazie ai suoi valori, ma purtroppo quello che ha detto Pastore è totalmente falso. Anzi, lo sport maschile è portatore di una cultura sessista e ostile alle donne come pochi altri ambiti sociali al mondo. I numerosi sportivi – non solo calciatori – accusati di molestie o stupri sono un esempio lampante di come questa cultura positiva nella gestione dei rifiuti non abbia alcun reale fondamento. La vittima del caso Portanova aveva espressamente negato il suo consenso a un rapporto di gruppo, ed è stata forzata ad averlo. Quando Demba Seck ha inoltrato il video intimo dell’ex-fidanzata agli amici, ha dimostrato di non aver saputo gestire la fine di quella relazione. Gli esempi, se si ha la pazienza di cercarli, sono molteplici: Filippo Turetta, per dire, giocava a pallavolo.

Come già evidenziato da Pippo Russo nel suo Calcio e cultura dello stupro: il caso Ched Evans, questo sport veicola un messaggio che valorizza gli atleti come soggetti socialmente prestigiosi e sessualmente attivi, in grado di avere qualsiasi donna vogliano e per cui il consenso femminile a un rapporto è sempre implicito. Il fatto che in quanto calciatori siano abituati a sentirsi dire sempre di sì dalle donne è stato usato durante il processo sia dalla difesa di Ched Evans sia da quella di Benjamin Mendy. Simili conclusioni sono state raggiunte diversi anni fa da chi ha approfondito il problema degli stupri nel football universitario negli Stati Uniti, uno sport che nel paese nordamericano riveste un ruolo sociale molto simile a quello del calcio qua in Europa. Sembra allora che lo sport, più che aiutare a gestire un rifiuto da parte di una ragazza, insegni a non curarsene proprio, ed è un argomento che a livello accademico è stato ampiamente trattato. Sostenere il contrario è purtroppo una grave sottovalutazione di un problema estremamente serio, che anche involontariamente finisce per contribuire ad allontanare il problema dallo sport, collocandolo al di fuori di esso.

Invece questa cultura è talmente pervasiva, nell’ambito dello sport maschile, che è impossibile non vederla praticamente in ogni suo angolo. A partire dal comportamento degli atleti, certamente. E non si tratta solo di chi ha molestato o stuprato una donna, ma di qualcosa che funziona anche a un livello apparentemente più innocuo. L’assoluzione di Mendy ha generato un gran numero di commenti positivi da parte di alcuni dei più noti calciatori del mondo, ma quasi nessuno di essi è intervenuto a difendere la collega Jenni Hermoso, molestata in mondovisione dall’allora presidente della Federcalcio spagnola Luis Rubiales (mentre centinaia di calciatrici da tutto il mondo si sono espresse in favore dell’attaccante iberica). I media contribuiscono in maniera determinante a questa cultura che oggettifica le donne all’interno dell’ambito sportivo, e così facendo rinforzano il pensiero sessista anche nel pubblico. I dati parlano chiaro: secondo uno studio del 2021 della Football Supporters’ Association, l’associazione dei tifosi inglesi, una tifosa su cinque ha subito molestie allo stadio. Non esistono dati del genere in Italia: evidentemente a nessuno importa come una donna viva la propria esperienza da tifosa.

Nel 2019 Lorenzo Insigne, all’epoca giocatore del Napoli, è stato oggetto di uno scherzo delle Iene e della moglie Jenny Darone. Dal video mostrato in tv (con tanto di risate ed effetti comici), è emerso un comportamento verso la compagna fatto di insulti, sberle, divieto di stare sui social, controllo del telefono ogni sera, fino alla decisione di vietarle di fare un provino per un film. Nessuno, né nel Napoli né nel resto del calcio italiano, ha commentato la vicenda.

Dopo le parole di martedì scorso dell’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo, che ha annunciato la nuova iniziativa del massimo campionato italiano contro la violenza sulle donne, mercoledì è arrivata la conferma del presidente di Lega Lorenzo Casini, secondo cui “il calcio può essere un ulteriore veicolo di sensibilizzazione”. I due dirigenti sono entrambi concordi sulla necessità di fare di più su questo fronte, ma ancora non è chiaro cosa abbiano in mente. La Strategia di Sostenibilità 2030 presentata dalla FIGC lo scorso luglio include la lotta alle discriminazioni di genere e alla violenza sulle donne tra i suoi obiettivi, ma basta approfondire il dossier per rendersi conto di quanto queste misure siano vaghe. Si parla di una campagna di comunicazione a supporto del numero anti-violenza 1522, e di iniziative per l’inclusione e contro le discriminazioni, ma senza entrare ulteriormente nel dettaglio. In più, il paragrafo chiamato “Lotta alla violenza sulle donne” è inserito nella sezione “Le campagne del calcio femminile”: non c’è nessun riferimento a iniziative nel calcio maschile.

Ancora una volta, il problema viene trattato come qualcosa che sta al di fuori del mondo del calcio e che riguarda, al massimo, le calciatrici. Una parte enorme di questa situazione è rimossa, se non implicitamente negata, dalle istituzioni del calcio italiano. E dire che le cose da fare sarebbero molte: programmi educativi rivolti ai giovani calciatori, istituzione di presidi anti-violenza negli stadi, regole precise che sanzionino comportamenti sessisti anche a livello verbale da parte di tifosi, giocatori e dirigenti sportivi. In poche parole, iniziare a considerare la violenza di genere un problema che riguarda anche il calcio, e che proprio da questo punto di vista le istituzioni sportive hanno il dovere di affrontarla.

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Per approfondire sul calcio e la cultura dello stupro:

Il calcio e la cultura dello stupro, Valigia Blu

Il calcio ha un problema con gli stupri, Pallonate in Faccia

L’assoluzione di Mendy non è il punto, L’Ultimo Uomo

6 pensieri riguardo “Il calcio italiano non ha la minima idea di cosa fare contro violenza sulle donne”

  1. La tua riflessione sul “privilegio dello sportivo” (quello per cui nessuno può dirgli di no) mi ha colpito profondamente. Ed anche il tema del “voglio occuparmi del sociale ma senza assumermene la responsabilità” mi sembra molto interessante. Grazie.

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