Il calcio che ha rinnegato la favela per Bolsonaro

“Il Brasile è sempre stato un paese di panem et circenses. Finché il calcio va bene, tutto va bene.” – Felipe Zboril

Dalla favelas al campo di calcio: una storia arcinota, quella dei figli della povertà del Brasile più nascosto e misconosciuto (ben lontana dalla favela pop di Amore e capoeira) che diventano idoli grazie al calcio. Una storia che ha delineato un mito: il calcio, in Brasile, è lo sport dei poveri, delle classi disagiate e degli emarginati, degli umili e dei diseredati. Lo è stato, probabilmente. Ma oggi, calcio e favela sembrano distanti anni luce.

L’appoggio di molte leggende della Seleção a Jair Bolsonaro – il candidato Presidente di estrema destra, ammiratore della dittatura militare, razzista, omofobo, misogino e anti-abortista – ha riaperto la questione di recente: Rivaldo, Ronaldinho Gaucho, Felipe Melo, Kakà e Lucas Moura sono solo alcuni dei nomi che gli hanno espresso simpatia politica, e nel match di campionato appena prima delle elezioni l’Atletico Paranaense è sceso in campo con magliette che invitavano a votare per lui, in una mobilitazione senza precedenti del mondo del calcio verdeoro. In Brasile, i calciatori hanno spesso fatto politica: i loro nomi vengono sfruttati dai partiti per raccogliere voti tra gli indecisi, e in cambio hanno accesso a una nuova ricca carriera una volta appesi gli scarpini al chiodo. È come il calciomercato: il partito è la squadra, l’ex-campione di futbol è la star che ti può far avere un’impennata agli abbonamenti. E così abbiamo visto Pelé Ministro dello Sport per il centrodestra; Romario e Bebeto candidati locali per gli antisistema “né di destra né di sinistra” di Podemos; Ronaldo e Neymar appoggiare il candidato democristiano Aècio Neves contro Dilma Rousseff; Cafù Sottosegretario allo Sport proprio per Dilma, e adesso sostenitore di Bolsonaro.

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Un graffito di Neymar vandalizzato, in occasione della Coppa del Mondo del 2014, disputata in Brasile.

Pochi mesi fa, la Seleção prendeva le distanze dal controverso Presidente Temer, travolto dagli scandali, con il tecnico Tite che rivelava che, anche in caso di vittoria ai Mondiali, lui e i giocatori non lo avrebbero incontrato. Ciò ha fatto scrivere ad Alfredo Spalla che il potere, in Brasile, non può più usare il calcio come strumento di consenso; eppure, oggi la vicenda Bolsonaro smentisce seccamente quella previsione. È invece vero che il calcio ha perso il suo appeal solo tra le classi disagiate, che già in occasione della Coppa del Mondo del 2014 avevano indetto manifestazioni contro la gestione del torneo da parte del governo, la violenta tabula rasa nelle favelas e la nuova politica degli stadi atta a limitare l’ingresso alla popolazione benestante del paese e ai turisti stranieri (e all’epoca governava il Partido dos Trabalhadores di Dilma Rousseff, non la destra). Per contro, le proteste “da destra” contro la Rousseff nel 2016 – in seguito ad accusse di corruzione e alla possibilità di impeachment – hanno invaso Brasilia con una folla di magliette verdeoro.

La Seleção ha iniziato a diventare il simbolo di una protesta nazionalista e destrorsa contro la corruzione del sistema politico, ovvero contro ciò che l’Alt Right statunitense – quella che ha partorito Donald Trump e ispirato la nuova destra europea, dallo Ukip di Nigel Farage, protagonista di Brexit, ai vari partiti maggioritari nell’Est, fino a Marine Le Pen e all’attuale governo italiano – chiama establishment. Così, l’elettorato di sinistra che gravita attorno al Partido dos Trabalhadores ha iniziato a prendere le distanze dalla amarelinha, e con essa dal calcio stesso: “Non è più possibile indossare la maglietta della Seleção – ha spiegato alla rivista Epoca lo scrittore Marcelo Rubens Paiva – è divenuta il simbolo di una manovra di massa comandata dai golpisti.”

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Nell’estate del 2013 il Brasile è stato attraversato da imponenti manifestazioni di piazza e proteste contro l’innalzamento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici voluto dal governo di Dilma Rousseff, ma si è esteso anche ad altri temi come quelli dei diritti civili e della violenza della polizia, unendosi alle proteste degli sfrattati per via dei lavori in vista di Mondiali e Olimpiadi. Cinque anni dopo, la protesta si sarebbe spostata a destra.

Ma già durante gli anni della dittatura i movimenti antifascisti, in particolare quelli di sinistra, avevamo maturato una certa antipatia nei confronti della Nazionale, che con la vittoria mondiale del 1970 era divenuta la miglior arma di propaganda possibile per il regime, proprio come sarebbe avvenuto otto anni più tardi in Argentina. E oggi, con il Brasile più in difficoltà che mai con il pallone tra i piedi (non vince un Mondiale dal 2002 e la Copa America dal 2007, e l’ultima miglior prestazione ai Mondiali risale al deludente quarto posto casalingo del 2014, concluso con un 1-7 in semifinale subito dalla Germania e uno 0-4 inflitto dall’Olanda nella finale per il terzo posto), la partita si è spostata dal rettangolo verde all’arena politica. Un sondaggio dell’Instituto Datafolha, risalente allo scorso gennaio, ha rivelato che il 41% degli intervistati non avrebbe guardato la Coppa del Mondo in Russia, in cui Neymar e compagni erano dati favoriti; questa percentuale, nel 2010, era di appena il 18%.

Non c’è da stupirsi neppure se il mondo del calcio brasiliano ha scelto Bolsonaro. Come spiegato da Dean Rader sul San Francisco Chronicle, esiste uno stretto legame tra lo sport di squadra e l’ideologia conservatrice: la gerarchia, il culto della vittoria, la dicotomia tipica del risultato sportivo. Tuttavia, il caso brasiliano pone un’ulteriore questione: il calcio, un tempo esaltato come principale veicolo di riscatto sociale, ha finito per creare una classe di calciatori ricchi che rifiutano istintivamente l’accostamento alle classi povere da cui spesso provengono, e che temono di perdere i privilegi che si sono duramente conquistati (similarmente a come accaduto a O.J. Simpson, nel football americano). Quelli che non sono emigrati in Europa – i quali sono solo una minima parte della popolazione calcistica brasiliana – giocano prevalentemente nei club del sud-est del paese, la zona più ricca e più bianca del Brasile, dove gli analisti collocano la grande maggioranza dell’elettorato di Bolsonaro. “Provengono da un background di privazioni sociali e arrivano alla vita agiata della classe medio-alta. Invece di guardare alle loro origini, si identificano con il loro nuovo stato sociale, quello dell’élite.” ha detto Flavio de Campos, professore di storia all’Università di São Paulo, a Give Me Sport.

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Jair Bolsonaro, a sinistra, accanto a Felipe Melo, mediano del Palmeiras ed ex-giocatore di Fiorentina, Juventus e Inter.

Sono state poche le voci levatesi contro il candidato dell’ultradestra, nel mondo del calcio brasiliano. Durante lo sperticato appoggio dell’Atletico Paranaense, il terzino Paulo André – visto in Europa con il Le Mans e campione nazionale nel 2011 con il Corinthians – si è rifiutato di indossare la maglietta pro-Bolsonaro. Anche Juninho Pernambucano, storico regista del Lione, ha chiarito la sua posizione, dicendo a El Pais: “Noi [i calciatori, ndr] veniamo dal basso, siamo il popolo! Come possiamo schierarci dall’altra parte?”.

 

Fonti

DEMURU Paolo, La crisi brasiliana spiegata con il calcio, Doppiozero

FURTADO Tatiana, A Amarelinha perdeu o posto? Apropriaçao politica da camina da Seleçao fez outros tons ganharem vez às vésperas da Copa, Epoca

-GROZNY Ivan, VALERI Mauro, Ladri di sport: dalla competizione alla resistenza, Agenzia X – Global Books

LAW Joshua, Lucas Moura and the Brazilian football stars giving the backing to Jair Bolsonaro, Give Me Sport

LONGHI Lorenzo, Brasile, 50 anni fa il golpe. E la dittatura toccò il calcio, Sky Sport

SPALLA Alfredo, Dall’Argentina al Brasile, il potere non può più aggrapparsi al pallone, EastWest