Il calcio italiano ha dimenticato il 25 aprile

Chi giovedì scorso ha dato un’occhiata sui social potrebbe aver notato che praticamente tutti i club portoghesi hanno pubblicato qualcosa per celebrare il Dia da Liberdade, il giorno della caduta del regime fascista di Salazar, il 25 aprile 1974. Il cinquantennale della fine della dittatura è chiaramente un evento speciale, ma in realtà ogni anno le socità lusitane non mancano di sottolineare questa ricorrenza. Il Benfica, il Porto, lo Sporting, e poi anche tutte le altre squadre anche meno in primo piano: tutte partecipano alla memoria del giorno della democrazia in Portogallo. La fine del fascismo in Portogallo cade, com’è noto, nello stesso giorno di quella italiana, dove la liberazione dal nazifascismo è avvenuta però 29 anni prima. Eppure, in Italia praticamente nessuna società di calcio professionistico sembra avvertire il bisogno di ricordare quello che è stato un momento fondamentale per la storia del nostro paese, e anche per il nostro calcio.

In Portogallo, il Dia da Liberdade è un motivo d’orgoglio per i club. Il Benfica pubblica sempre la foto di un bambino con indosso una giacca con la spilla delle Águias: si tratta di Salgueiro Maia, uno dei capitani d’aprile che fecero la rivoluzione dei garofani. Lo Sporting Lisbona ha usato invece un’immagine dei suoi giocatori che festeggiano in campo stringendo dei garofani, e la scritta recita “Sporting campione della libertà”, perché nel 1974 i Leões divennero la prima squadra a vincere il campionato nell’epoca della democrazia. L’Académica de Coimbra ha pubblicato alcune foto dei suoi tifosi e dei suoi studenti (d’altronde, è la squadra dell’università) che già dalla fine degli anni Sessanta avevano iniziato a contestare il regime: “Dal 1887, dal lato giusto della Storia”. Per contro, in Italia solo il Pescara – da anni molto attivo su tematiche sociali e politiche anche sui social – ha deciso di ricordare il nostro 25 aprile. Un passo indietro, addirittura, rispetto all’anno scorso, quando almeno il Milan aveva celebrato la Liberazione, unica tra le squadre di Serie A.

La cosa più avvilente di tutto questo comportamento è che, così facendo, questi club non vengono meno solo alla storia del proprio paese, ma anche alla loro stessa storia come società di calcio. Nessun post dalla Roma, che lo scorso 4 febbraio ha perso Giacomo Losi, terzo per presenze in giallorosso dopo Totti e De Rossi, e che da ragazzino nel Cremonese, prima di scendere nella Capitale, era stato una staffetta partigiana. Niente dal Torino, che tra le sue fila ha avuto, tra il 1937 e il 1940, Bruno Neri, il più famoso calciatore partigiano morto combattendo i nazisti. Silente anche la Juventus, la cui proprietà attuale è la stessa che, durante la guerra, si adoperò per strappare dalla condanna a morte il suo ex-portiere Giuseppe Peruchetti, arrestato in quanto partigiano. Non ha pubblicato nulla l’Empoli, che gioca addirittura in uno stadio che porta il nome di un giocatore che fino al 2011 è stato il primatista di gol con la sua maglia, e che morì in un campo di concentramento nazista. E così il Bologna ignora del tutto Dino Ballacci, che prima di diventare un glorioso capitano rossoblù fu partigiano in Friuli, proprio come il Como fa con Michele Moretti, che giocò nella squadra allora chiamata Comense tra il 1927 e il 1935, e dieci anni dopo l’addio al calcio fu tra i partigiani che catturarono e uccisero Mussolini.

In un’epoca in cui i club di calcio tengono molto alla propria storia, e rievocano spesso sui social qualsiasi campione del passato o episodio curioso o significativo, così da far sentire ai tifosi il senso di appartenza e identità, queste vicende sono costantemente rimosse, anno dopo anno. E dire che non sono certo dei segreti: le società dovrebbero conoscerle, gli stessi tifosi spesso ne sono a conoscenza. Gli appassionati, più in generale, potrebbero recuperare questi casi e altri che non ho citato nell’ottimo libro Cuori partigiani. La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana di Edoardo Molinelli, pubblicato nel 2019 da Red Star Press. Un volume che, quando è uscito, voleva certamente essere un strumento di informazione, ma anche di sintesi tra tante diverse storie locali che mai prima d’ora erano state raccolte in un unico scritto. Invece oggi, purtroppo, appare più che altro un catalogo della vergogna, in cui di pagina in pagina possiamo scoprire tutte le società che hanno preferito dimenticare i propri martiri della Resistenza.

Libero Marchini (ex di Carrarese, Fiorentina, Genoa, Lucchese, Lazio e Torino) dopo la finale delle Olimpiadi di Berlino 1936: anarchico, è l’unico che non fa il saluto fascista.

È forse il clima politico italiano a spingere a una maggiore “prudenza”? Sembrerebbe di no. Anche prima del governo Meloni era raro che qualche società del nostro calcio professionistico parlasse del 25 aprile o provasse a ricordare i calciatori partigiani della sua storia. E d’altronde, il Portogallo non è esente dal fenomeno dell’estrema destra radicale, con il partito neofascista Chega che alle elezioni dello scorso 10 marzo aveva conquistato il 18% dei voti, il massimo storico per una formazione di questo tipo dalla caduta della dittatura. Che ci sia, dunque, il rischio da entrambe le parti che un post sui social possa attirare commenti negativi anche da parte del proprio tifo – trattandosi in questo caso di una tematica trasversale – è evidente, ma i club lusitani scelgono lo stesso di schierarsi, e di farlo anche in maniera molto esplicita. Può influire, piuttosto, il fatto che in Portogallo il fascismo non abbia (ancora) goduto della normalizzazione brutale che ha vissuto in Italia: giovedì, il parlamento unito ha cantato Grândola, Vila Morena, la canzone della rivoluzione, con i presenti che stringevano in mano i garofani, senza distinzione di partito (se non appunto per Chega, i cui deputati hanno scelto di uscire dall’aula). Un parlamento italiano che canti Bella ciao è, da molti anni, sostanzialmente utopia.

Ma oltre a questo, il problema in Italia sembra avere altre due ragioni principali. La prima è la più o meno regolare presenza nelle tifoserie di persone di estrema destra che si preferisce “non disturbare”. Un fatto che purtroppo testimonia come la retorica del “25 aprile divisivo” (dove per divisivo si intende sempre qualcosa di gravemente negativo) abbia trionfato. Ma c’è anche una tendenza culturale alla depoliticizzazione del pallone che ormai da tempo è dominante nel sistema italiano. Raramente i tifosi prendono chiare posizioni politiche e sociali, nel nostro paese. Ancora più raramente sono i club a schierarsi, a meno che non si tratti di adeguarsi alle iniziative di facciata organizzate dalla FIGC (anche lei, ovviamente, silente sul ricordo della Liberazione). Sui casi di razzismo, largamente diffusi nei nostri campionati, il trend è quello di condannare quando le vittime sono i propri giocatori, e fare generalmente finta di nulla quando invece l’insulto è arrivato da qualche proprio tifoso. Questa non è una prospettiva politica o sociale, è semplicemente opportunismo. La Roma è stata forse l’unico club importante che ha provato anche sui social ad agire diversamente, ma con il passaggio della proprietà alla famiglia Friedkin il comportamento pubblico del club ha virato verso una decisa “apoliticità”.

Questa rimozione del 25 aprile dalla storia del nostro calcio crea poi delle evidente contraddizioni alle quali però siamo generalmente ciechi. Tra qualche giorno cadrà il 75° anniversario della tragedia di Superga, e sicuramente il Torino ma anche tutto il mondo del nostro calcio, non escluse le grandi testate, ricorderanno quanto avvenuto il 4 maggio 1949. Ma come è possibile commemorare il Grande Torino e ciò che rappresentò per l’Italia senza considerare che la grandezza di quella squadra fu anche quella di traghettare il paese, attraverso lo sport, fuori dalle macerie fisiche e morali del Ventennio e della successiva occupazione nazista? Come non ricordare che il Grande Torino fu la squadra della Repubblica, per la quale diversi di quei giocatori fecero campagna in occasione del referendum del 2 giugno (altra data totalmente rimossa dalla storia del calcio)? Il prossimo 4 maggio assisteremo purtroppo a una parata di ipocriti, che pretendono di ricordare dei calciatori morti ignorando però le persone che sono stati, e il contesto in cui divennero leggende.

L’Italia è l’unico paese, tra quelli in cui il calcio riveste una grande importanza economica e sociale, a vivere una separazione così netta tra lo sport e la società che gli sta attorno. Questa apoliticità, intesa come volontà di non schierarsi mai su nulla che non attenga strettamente agli aspetti sportivi del gioco, è purtroppo il tratto caratteristico del nostro pallone. Lo stesso che rende impossibile affrontare fenomeni come il razzismo o il sessismo e la violenza sulle donne senza ricorrere a mere frasi fatte. Un calcio diverso esiste, ed è quello dei club popolari, che proprio in questi giorni hanno organizzato incontri ed eventi per praticare lo sport e l’antifascismo. Ma giocano su un piano completamente diverso rispetto a quello dei grandi club, non solo per visibilità e peso economico, ma anche per un differente ruolo nel sistema calcio. In definitiva, però, il problema parte dal basso: se ai tifosi antifascisti questo stato delle cose non crea problemi, se non si avverte il bisogno di recuperare il discorso politico all’interno dello sport, allora perché dovrebbe importarne qualcosa alle società, per non parlare dei singoli calciatori?

CORREZIONE: Contrariamente a quanto scritto, l’Empoli ha pubblicato su X un ricordo del 25 aprile, anche se enza riferimenti a Carlo Castellani.

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