AHN. Una storia di calcio, xenofobia e populismo

Mancano tre minuti ai calci di rigore quando Ahn Jung-hwan segna il gol più importante della sua carriera: un cross dal centrosinistra, e lui – misconosciuto attaccante di 1 metro e 77 – stacca benissimo, prendendo il tempo addirittura a Paolo Maldini – che gli darebbe 9 cm piedi a terra – e insacca il gol del 2-1. Per le regole del 2002, è golden goal: la Corea del Sud elimina l’Italia agli ottavi di finale dei Mondiali. E dire che la partita, per Ahn, era iniziata malissimo, sbagliando un rigore dopo pochi minuti che avrebbe potuto portare avanti i suoi. Invece aveva poi segnato Vieri, e gli Azzurri avevano più di una volta sfiorato il raddoppio, prima di venire riacciuffati quasi nel recupero da un tiro di Seol Ki-hyeon, liberato da un goffo intervento di Panucci. Poi ancora vari errori dell’Italia ai supplementari, tensioni con l’arbitro Byron Moreno – che espelle inspiegabilmente Totti, il quale invece sostiene d’aver subito un fallo da rigore – e alla fine l’insperata occasione del riscatto. Un gol che cambierà la sua vita, ma non in meglio.

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Niente neri nell’Argentina: il Mondiale negato di Alejandro de los Santos

Quando la federazione diffuse la lista dei convocati per l’Uruguay, stilata dai selezionatori Francisco Olazar e Juan José Tramutola, Alejandro de los Santos sapeva già che il suo nome non ci sarebbe stato. Era il primo Mondiale di calcio della storia, e l’Argentina aveva tutta l’intenzione di vincerlo, presentandosi al torneo come vincitrice delle ultime due edizioni della Copa América. Ma per De los Santos, che all’epoca aveva 28 anni ed era all’apice della carriera, quella fu una grande delusione, e la motivazione non poteva che essere una, la stessa che da qualche tempo aveva convinto i selezionatori dell’Albiceleste a tenerlo fuori dalla nazionale a dispetto delle sue qualità: era nero, e nessuno voleva dare l’idea, al paese e al resto del mondo, che l’Argentina fosse un paese di neri.

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Quella di Freddy Adu è stata una storia di abusi su un minore

Chiunque abbia almeno trent’anni oggi ricorda il suo nome con un misto di romanticismo e fascinazione, ma pure un po’ di ironia. In Italia lo si scopre, per la precisione, a fine novembre del 2003, quando tutti i quotidiani – non solo quelli sportivi – titolano su questo ragazzo statunitense che a soli 14 anni ha già firmato un ricco contratto da professionista ed è pronto a diventare la nuova stella del calcio. Sull’altro lato dell’Atlantico, la fama è arrivata addirittura prima, e in un paese disperatamente alla ricerca di una propria stella nel soccer che piace tanto agli europei, Freddy Adu scomoda paragoni abbastanza ingombranti. Sono tutte promesse che – oggi lo sappiamo – non arriverà mai nemmeno lontanamente a mantenere, e adesso la sua storia rappresenta prima di tutto un grande abbaglio collettivo. Nessuno pare però aver mai provato a considerarla sotto un’altra luce, trovando il coraggio di guardare in faccia i tanti aspetti problematici che ha sollevato.

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Jeppson, la stella milionaria e il sogno politico di Achille Lauro

La cifra fa venire il capogiro: 105 milioni di lire complessivi, di cui 75 all’Atalanta e 30 al giocatore. Soprattutto perché in Italia si starà pure iniziando a parlare di “miracolo economico”, ma gran parte della popolazione è ancora molto povera, la ricostruzione del dopoguerra non è ancora terminata, e al Sud la situazione è anche più problematica. Il suo nome è Hans Hasse Jeppson, è un attaccante scandinavo di 27 anni e in patria la gente lo chiama Guldfot, “piede d’oro”. La sorpresa è ancora più grande perché Jeppson non arrivà in una delle grandi del campionato, come l’Inter o la Juventus, ma nel Napoli, che solo due anni prima veniva nuovamente promosso in Serie A e ha tradizione abbastanza modesta nel calcio italiano. Ma sotto questo clamoroso colpo di mercato si estendono radici politiche che affiorano in maniera abbastanza evidente dal terreno delle trattative.

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La vita oltre la guerra: la storia di Aleksandar Đurić

Il kayak non è certo uno degli sport più seguiti al mondo, ma per gli appassionati, nel 1987, c’era un nome che iniziava a farsi largo, attirando l’attenzione di molti: Aleksandar Đurić. Era un ragazzo di 17 anni di un villaggio della Bosnia che due anni prima aveva conquistato il titolo juniores jugoslavo, e in quel momento era il numero 8 al mondo. Flashforward: 20 anni dopo. Lo stesso Aleksandar Đurić esordiva per la prima volta con una rappresentativa nazionale, ma stavolta non si trattava di kayak bensì di calcio, e la selezione non era bosniaca o comunque balcanica, ma quella di Singapore. Nel corso di due decenni, il mondo aveva sconvolto la sua vita, prima ancora che la sua carriera sportiva.

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Belounis, una storia di calcio e kafala in Qatar

L’Île-de-France è un nazione nella nazione, quell’area geopolitica che abbraccia Parigi e che da sola produce probabilmente più calciatori di talento di qualunque altra zona della Francia e alla pari di tanti veri e propri stati europei. Talmente tanti calciatori che non tutti riescono a sfondare in patria, e devono cercare fortuna all’estero, a volte anche in campionati di secondo piano. Inizia così il girovagare di Zahir Belounis, attaccante di origine algerina nato e cresciuto a Saint-Maur-des-Fossés – in una cittadina in cui circa il 15% della popolazione, quando lui era ragazzo, era composto da immigrati – che all’inizio degli anni Duemila ha iniziato a viaggiare tra le serie minori transalpine, poi in Malesia, Svizzera e infine Qatar. Si dice talvolta che il sogno di ogni nomade moderno sia la vita tranquilla dello stanziale: Belounis, in Qatar, finì per trovarsi costretto a rimanere.

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Fratello, dove sei?

Mancavano meno di venti minuti: Ardiles gli diede la palla e si buttò in area, pronto a chiudere l’uno-due. Invece Leopoldo Luque stoppò secco di destro, e la palla fece un saltello; quando alzò la testa, i difensori erano ancora troppo lontani: peggio per loro. Un rimbalzo, e poi premette il grilletto del suo piede. Baratelli volò come se l’avessero sparato da un cannone, e toccò terra stordito dal boato del Monumental: Argentina 2 – Francia 1. Con quella vittoria, l’Albiceleste era certa del passaggio del turno, anche se restava da decidere se sarebbe stata prima o seconda nel girone, nella terza sfida con l’Italia. Festeggiarono, e la mattina dopo Luque ricevette la visita dei famigliari – per sapere se si era fatto male seriamente al braccio durante la partita, pensò. Il padre e lo zio si avvicinarono scuri in volto. “Leo, il Chaco ha avuto un incidente e s’è ammazzato”.

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Nel segno di Keïta

Si dice che Keïta significhi “prendere l’eredità”: è un nome potente, che deriva dal mondo mitico e aristocratico dell’antico impero del Mali, una delle più grandi potenze della storia africana. Il suo fondatore, Sundjata Keïta, nacque storpio, imparò a camminare da solo, e infine divenne una leggenda. La sua stirpe divenne una leggenda: tra i suoi eredi più recenti c’è Salif Keïta, uno dei più noti cantanti africani al mondo. Curiosamente, tre anni prima di lui, a Bamako nasceva un altro Salif Keïta, senza alcun legame di parentela come il primo mansa del Mali, ma che a suo modo sarebbe divenuto lo stesso un sovrano, anche se stavolta nel calcio: nel 1970, sarebbe stato il primo calciatore a ricevere il Pallone d’Oro africano.

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La controversa ascesa politica di Cuauhtémoc Blanco

Alle 4.00 di mattina del 21 giugno 2015, finalmente le autorità elettorali di Cuernavaca riuscivano a ufficializzare il nuovo Presidente Municipale, cioè il sindaco. Con un risultato a sorpresa, per la prima volta una formazione di centrosinistra – il Partido Socialdemócrata de Morelos – riusciva a conquistare il governo cittadino: una vera e proprio impresa, se consideriamo che sei anni prima il partito si era sciolto a livello nazionale, sopravvivendo solo nello Stato di Morelos. E quella vittoria sembrava poter aprire le porte a una resurrezione politica, guidata dal nuovo Presidente Municipale di Cuernavaca, Cuauhtémoc Blanco, un attaccante di 42 anni ancora in attività, con un record di 120 presenze e 39 gol con la maglia del Messico.

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