La Juve da Trump è (purtroppo) un pezzo di Storia

La Juventus da Donald Trump

Le foto della Juventus nello Studio Ovale, a fare da tappezzeria alla propaganda di Donald Trump, faranno purtroppo la Storia. Rimarranno come un tragico documento dei rapporti tra calcio e politica – ma potremmo anche dire sportwashing, anche se per una volta riguarda un paese occidentale – in uno dei momenti più tetri della nostra società. Possiamo discutere a lungo su chi abbia organizzato l’incontro, su chi era d’accordo e su chi era contrario, ma quelle foto resteranno, oscurando ogni altro discorso: nel giugno 2025, la Juventus si è prestata a un teatrino politico di Trump, tra discorsi bellicisti verso l’Iran e rivendicazioni di leggi discriminatorie che riguardano anche lo sport. Il tutto, nel già disagevole contesto di un Mondiale per Club che si gioca in un paese in accelerata fase di fascistizzazione.

È abbastanza chiaro chi abbia voluto che quest’incontro avvenisse: Gianni Infantino, trasformatosi in uno zerbino della Casa Bianca ma convinto di esserne un alleato. Il suo disperato bisogno di rimarcare a ogni occasione l’amicizia con Trump rasenta ormai il patetico, e diventa paradossale nel momento in cui il Presidente degli Stati Uniti sta facendo di tutto per smentire il motto di Infantino sul calcio che unisce il mondo: i travel ban e le retate anti-immigrati hanno mandato in frantumi la già malandata retorica della FIFA. Nel marzo del 2017, quando durnate il suo primo mandato Trump già emise un divieto di ingresso nel paese per alcuni cittadini stranieri, Infantino gli rispose subito per le rime: limitare l’accesso di atleti, staff e tifosi al paese ospitante era incompatibile con l’organizzazione del Mondiale. Otto anni dopo, non solo questo non è più un problema, ma addirittura assistiamo a una FIFA che cancella le proprie campagne contro il razzismo pur di non turbare la sensibilità di Trump. Oggi il capo del calcio globale finge di non sentire le tifoserie e i club statunitensi che condannano le retate criminali dell’ICE, così come sceglie di ignorare casi che coinvolgono direttamente questo sport, come l’arresto e l’espulsione di Emerson Colindres, 19enne calciatore di Cincinnati di origini honduregne.

Dopodiché, se Infantino ha ideato organizzato l’incontro, la Juventus ha detto di sì. John Elkann aveva già incontrato Trump a Washington a inizio aprile per discutere di dazi e di investimenti nell’industria automobilistica: difficile non pensare che dietro la visita di cortesia dei bianconeri alla Casa Bianca ci fossero anche ragioni strategiche ed economiche della proprietà. Elkann ha dunque scelto di sacrificare l’immagine del suo club per i propri interessi industriali. Il frangente in cui il Presidente si rivolge ai giocatori e al direttore generale Comolli in cerca di legittimazione alle sue posizioni contro le donne trans nello sport femminile calpesta anni di comunicazione e iniziative della Juve in favore dei diritti LGBTQ+, che ne avevano fatto un caso quasi unico in Italia. Come ho già scritto più diffusamente su Domani, questo riallineamento era forse già iniziato nelle scorse settimane, con la mancata riconferma della Juve come ambassador del Milano Pride.

Serve a poco sottolineare che il club non ha riproposto sui social le foto dell’incontro col Presidente americano, anzi rende il tutto ancora più grottesco. Quelle immagini sono circolate online, ne hanno parlato i media di tutto il mondo, e la stessa Juventus ha pubblicato un articolo a riguardo sul proprio sito. Il tentativo di oscurare l’evento a cui ha scelto di prestarsi non può non risultare molto goffo, e dà l’idea che il club non vuole assumersi la responsabilità del proprio ruolo in quanto accaduto. Qualcuno dice che non si poteva dire di no alla FIFA e al Presidente degli Stati Uniti, eppure durante il primo mandato di Trump ben 10 campioni nazionali su 20 si rifiutarono di andare a celebrare il proprio titolo alla Casa Bianca, tra cui i New England Patriots e i Golden State Warriors. Poteva farlo anche la Juventus, peraltro appellandosi a ragioni più che logiche, come l’irritualità del gesto: perché solo una squadra? Perché prima della partita d’esordio e non a fine competizione? Perché proprio poco prima della gara, quando la squadra dovrebbe pensare ad altro? Se il club bianconero è andato alla Casa Bianca, è stato perché ha accettato liberamente di farlo.

Con questa decisione, la Juventus ha anche messo i suoi giocatori in una posizione spiacevole. Due in particolare, in quanto statunitensi e afroamericani nello specifico: McKennie, parlando alla Bild nel 2020, aveva già messo in chiaro di non apprezzare affatto Trump. Weah, dopo l’evento alla Casa Bianca ha ammesso pubblicamente di essersi trovato disorientato. Dopodiché i calciatori non sono esattamente vittime passive di quanto accaduto, ma in qualche misura ne sono stati corresponsabili. “Ci hanno detto che dovevamo andare e non avevo scelta” ha detto Weah, ma sinceramente riesce difficile da credere: cosa sarebbe accaduto se avesse detto ai dirigenti che lui, alla Casa Bianca, non ci sarebbe andato? Non avrebbero potuto punirlo o multarlo, dato che nel suo contratto – o in quello dei suoi colleghi – non ci sono certo clausole che obbligano a incontrare i capi di stato di ogni luogo in cui la squadra gioca delle partite. Di nuovo, i giocatori della Juve non sarebbero stati i primi atleti a rifiutarsi di incontrare Trump: solo lo scorso aprile diversi elementi dei Philadelphia Eagles, freschi vincitori del Super Bowl, si sottrassero al meeting col Presidente, tra cui pure la stella della squadra Jalen Hurts.

Disertare l’evento sarebbe stato nell’interesse dei giocatori, tanto quanto presenziare era in quello di Elkann, perché alla fine – come si diceva – sono i volti dei calciatori bianconeri schierati alle spalle di dittatore in pectore a rimanere impresse nelle foto e nella memoria collettiva. È bene essere chiari: la Storia non sarà tenera con Donald Trump e con i suoi lacché. E di conseguenza la sensazione è che in futuro quelle foto verranno guardate un po’ come oggi guardiamo quelle delle squadre inglesi che negli anni Trenta andavano a giocare in Germania e i cui giocatori, schierati a metà campo, facevano il saluto nazista. Anche all’epoca si diceva che il fatto di compiere quel saluto non sottintendeva un’adesione agli ideali di Hitler, e che veniva fatto solo come gesto di rispetto verso un capo di stato straniero di cui si era ospiti. Novant’anni dopo, abbiamo sentito le stesse cose. Nei giorni scorsi, proprio qui si era scritto dei giocatori che fecero il saluto a Hitler, di come gli dissero di farlo e si sentirono (o preferirono sentirsi) obbligati a farlo, ma anni dopo diversi ricordarono la vergogna per quel gesto che al tempo avevano provato a giustificare a loro stessi.

Per contro, oggi ricordiamo con simpatia il coraggio di quei pochi che il saluto non lo fecero e che non si prestarono alla propaganda nazifascista. Questo è un peso con cui i giocatori della Juventus, al di là delle loro opinioni e sensazioni personali sull’incontro alla Casa Bianca, dovranno confrontarsi per tutto il resto della loro vita. Ai tifosi – a quelli con una coscienza, almeno – resterà invece un senso di vergognosa impotenza. È il loro club, quello che è stato strumentalizzato per la sceneggiata politica di Trump, Infantino ed Elkann. In tanti e tante mi hanno scritto confessandomi il loro disagio, davanti a quelle immagini: più di uno ha detto che è stato peggio di Calciopoli, qualcun altro ha parlato – più correttamente – di essersi sentito tradito. A differenza dei soggetti citati prima nel corso di questo articolo, il tifoso non ha alcuna colpa o responsabilità per quanto avvenuto, ma è forse colui che ci ha perso di più. E, per estensione, ci abbiamo perso tutti in quanto appassionati di calcio – sempre che si abbia una coscienza, ben inteso.

In ultimo, qualche parola va destinata alla categoria di cui faccio bene o male parte, quella dei giornalisti sportivi. Qui in Italia, il teatrino di Trump con la Juve è stato trattato principalmente come un buffo episodio, una baracconata americana su cui farsi due risate, senza la minima analisi relativa al ruolo dello sport e della politica, al terribile contesto internazionale che stiamo vivendo, e al fatto che gli Stati Uniti sono il paese che ospiterà la Coppa del Mondo della prossima estate e i Giochi Olimpici del 2028. L’unica eccezione, in un mare di discorsi superficiali e ignoranti, è stato probabilmente l’articolo di Daniele Manusia sull’Ultimo Uomo. Ma basta guardare le principali testate sportive all’estero per rendersi conto che fuori da questo paese la vicenda è stata presa molto più sul serio. Questo per dire che, alle spalle di una Juventus opportunista e dei suoi giocatori incapaci di opporsi a quella strumentalizzazione, c’è un sistema mediatico che non riesce nemmeno a capire la gravità di ciò a cui ha assistito, e che di conseguenza non sa trasmettere nulla di utile alle persone che vorrebbe informare.

P.S. Questo articolo è stato scritto e pubblicato appena prima che gli Stati Uniti iniziassero a bombardare l’Iran. Alla luce di questi fatti, quanto scritto nelle righe precedenti è diventato ancora più drammaticamente vero e concreto. Purtroppo.

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Fuck Trump

3 pensieri riguardo “La Juve da Trump è (purtroppo) un pezzo di Storia”

  1. Aggiungo un elemento: da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, a diversi dei suoi atleti è stato impedito di partecipare a manifestazioni sportive, per lo meno sotto la bandiera russa. Non ricordo esattamente la politica seguita dalla FIFA in merito, ma qui abbiamo un problema di grandezza ancora maggiore: abbiamo uno stato che ne bombarda un altro, senza motivazione valida se non il suo interesse geopolitico, che non ha solo degli atleti da inviare ad una manifestazione sportiva, ma che organizzerà una manifestazione sportiva. Non mi aspetto coerenza da una federazione che senza problemi affida eventi al Qatar, ma comunque…

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