“È davvero un peccato che finisca tutto così” commentò Neil Lennon, parlando al telefono con Jim Stokes, giornalista della BBC in Irlanda del Nord, dalla propria casa a Lurgan. Era la tarda serata di giovedì 22 agosto 2002, e si era appena conclusa l’amichevole tra la selezione di Belfast e quella di Cipro. Lennon avrebbe dovuto giocare e, per la prima volta, indossare la fascia da capitano, dopo essere ormai da qualche anno il calciatore nordirlandese più conosciuto e importante in circolazione. Ma appena era stato annunciato che il ct Sammy McIlroy lo aveva scelto come capitano, gli uffici di Belfast della BBC avevano ricevuto una telefonata anonima di un uomo che minacciava di assassinarlo se non avesse rinunciato alla fascia. Informato dalla polizia, secondo cui la chiamata era stata fatta dal gruppo paramilitare Loyalist Volunteer Force, il centrocampista aveva deciso di non scendere proprio in campo contro Cipro. Poco dopo, parlando con Stokes, aveva aggiunto che non avrebbe mai più vestito la maglia dell’Irlanda del Nord.
Lennon era nel mirino degli estremisti unionisti da diversi mesi. Nel dicembre del 2000 aveva acconsentito a lasciare il Leicester City per trasferirsi al Celtic di Glasgow, che lo aveva pagato circa 6 milioni di sterline. A convincerlo erano state innanzitutto le pressioni di Martin O’Neill, nuovo allenatore del club scozzese e icona del calcio nordirlandese, ma di mezzo c’erano ragioni anche più personali. Lennon era sempre stato un tifoso del Celtic, in quanto squadra della minoranza irlandese e cattolica in Scozia. Il centrocampista era nato nel 1971 a Lurgan, nella contea di Armagh, in una famiglia cattolica e nazionalista irlandese, al punto che da bambino era stato indirizzato verso il calcio gaelico, sport che i nazionalisti preferivano al football britannico. Tuttavia quest’utlimo aveva finito per prevalere, e il giovane Lennon era entrato in un club giovanile locale legato proprio al Celtic, da cui poi era passato al Glenavon. A soli 16 anni era stato notato dagli scout del Manchester City e convinto a trasferirsi in Inghilterra, mentre l’Irlanda del Nord era ancora nel pieno dei Troubles.
La sua carriera era proseguita nel piccolo Crew Alexandra, con cui aveva ottenuto la promozione in Second Division e vinto tre volte il titolo di giocatore dell’anno del campionato. Così nel 1996 era stato acquistato dal Leicester City, dove aveva proseguito la sua ascesa e, sotto la guida già allora di Martin O’Neill e accanto a giocatori come Emile Heskey e Muzzy Izzet, aveva conquistato due League Cup. Era arrivato dunque a esordire con la selezione dell’Irlanda del Nord, diventandone uno dei giocatori più importanti: cosa rara ma non impossibile per un cattolico, come dimostravano i casi precedenti del già citato O’Neill e del portiere Pat Jennings. Il trasferimento al Celtic, però, aveva innescato una serie di reazioni per certi versi inaspettate: dopo trent’anni di guerra civile, nel 1998 era stato firmato l’Accordo del Venerdì Santo, un momento cruciale del processo di pace in Irlanda del Nord, e gli scontri settari sembravano destinati a diventare ormai solo un triste ricordo del passato. Invece, che la stella della Nazionale giocasse per la squadra simbolo del nazionalismo irlandese era per alcuni un fatto intollerabile.
Alla sua prima partita con l’Irlanda del Nordo dopo il cambio di club, nel febbraio 2001 in amichevole contro la Norvegia, Lennon aveva ricevuto diversi fischi ogni volta che toccava palla. Il match si era giocato, come di consueto, al Windsor Park di Belfast, che oltre a essere la casa della Nazionale era anche quella del Linfield, il più titolato dei club nordirlandesi e conosciuto soprattutto per la sua tifoseria unionista radicale, peraltro molto legata a quella dei Rangers, il club protestante di Glasgow acerrimo rivale del Celtic. Già in quell’occasione, il centrocampista aveva valutato la possibilità di ritirarsi dalla Nazionale, ma dopo un consulto con la famiglia aveva ritenuto di proseguire. Nei mesi successivi, ai fischi si era aggiunto anche dell’altro: su un muro di Lurgan, vicino alla sua casa di famiglia, erano comparsi il disegno di un uomo impiccato e la scritta “Neil Lennon RIP”. Quello che successe dopo la nomina a capitano, dunque, era stato solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Pure se a quattro anni dagli accordi di pace, l’Irlanda del Nord rimaneva un luogo dove una minaccia di morte non andava presa alla leggera. Avvisato dalla polizia, Lennon aveva telefonato alla sua famiglia a Lurgan per sincerarsi che stessero bene, quindi aveva lasciato il ritiro della Nazionale per raggiungerli. Inizialmente si era parlato del fatto che anche il ct McIlroy potesse dimettersi, ma era stato lui stesso a smentire quelle voci: “Non ho nessuna intenzione di gettare la spugna. Non ci si può arrendere a gente del genere, non possiamo lasciare che vincano”. Il caso di Lennon generò un’immediata onda di sostegno e di condanna dell’estremismo protestante. “Una minaccia di morte verso un nostro giocatore è una minaccia contro l’intera squadra” disse il presidente della Federcalcio Jim Boyce. Gli fecero immediatamente eco il Primo Ministro David Trimble, unionista, e il suo vice Mark Durkan, nazionalista irlandese, mentre la Ministra della Sicurezza Jane Kennedy commentò dicendo: “Una manciata di bigotti settari ha disonorato l’Irlanda del Nord agli occhi del mondo”. “Qualunque persona perbene e che crede nel rispetto condannerebbe questo episodio. – aggiunse il deputato unionista Jeffrey Donaldson – Chi ha fatto la minaccia parla a nome di nessuno”.
La politica nordirlandese agì prontamente e con granitica fermezza e unità davanti a quella situazione, mandando un messaggio chiaro a tutto il Paese: non torneremo indietro, non torneremo alla guerra civile nelle strade e alle divisioni. Non tutte le parti in causa avevano sottoscritto gli accordi del 1998, infatti. Una minoranza della Provisional IRA, guidata da Michael McKevitt, si era staccata dall’organizzazione per proseguire la lotta armata, ribattezzandosi Real IRA: poche ore prima del caso Lennon, aveva rivendicato l’esplosione di un ordigno in una base militare britannica a Derry, in cui era rimasto ucciso un operaio di 51 anni. A sua volta la Loyalist Volunteer Force era nata da una scissione dell’Ulster Volunteer Force, sotto la spinta di Billy Wright. Questa organizzazione si era però profondamente indebolita negli anni successivi, specialmente dopo che nel 1997 Wright era stato arrestato e poi assassinato in carcere da un detenuto cattolico. Anche per questo, a qualcuno sembrò strano che davvero la LVF fosse in grado di uccidere uno degli sportivi più in vista del Paese, peraltro residente in Scozia.
A sollevare dei dubbi era stato esplicitamente il giornalista Neil Mackay sul Sunday Herald, sotolineando come fosse prassi dei gruppi paramilitari, durante i Troubles, accompagnare le loro minacce con delle precise parole in codice. Si trattava di un sistema sofisticato, necessario per far sì che le minacce venissero prese sul serio e scongiurando il rischio di mitomani. L’estremista che aveva fatto la telefonata alla BBC, invece, non aveva usato nessuna parola in codice, e questo la polizia avrebbe dovuto saperlo. La stessa LVF si era affrettata a smentire qualsiasi responsabilità in quella vicenda. Le voci raccolte da Mackay puntavano verso un’altra direzione: la minaccia era stata probabilmente fatta da un matto unionista isolato, ma la polizia britannica aveva colto la palla al balzo per rovesciare la colpa addosso alla LVF, così da screditare e indebolire ulteriormente il gruppo. Era davvero così, o si trattava solo delle paranoie dei lealisti radicali, che al tempo stesso accusavano le autorità di aver fatto scoppiare il caso Lennon per far passare in secondo piano l’omicidio commesso dalla Real IRA lo stesso giorno?
Quale che fosse la verità, la società nordirlandese stava già guardando avanti, più lontano degli ultimi rimasugli dei Troubles, rimasti bloccati nel loro passato di sangue e di odio. “Un mio amico era alla partita e mi ha detto che il pubblico stava cantando il nome di Lennon. – disse in seguito Aaron Hughes, difensore protestante della Nazionale – C’è una minoranza che getta una brutta immagine non solo sul calcio, ma sul Paese intero. Quando vedi ciò che succede nel mondo, che qualcuno debba ricevere minacce di morte solo perché gioca in un certo club è davvero una disgrazia”. Intervenuto nei giorni successi sulla tv di Belfast, Neil Lennon confermò la sua decisione di abbandonare la Nazionale: “I miei genitori erano davvero sconvolti. Ho una figlia di 10 anni che al momento non sa nulla di tutto questo, e cercheremo di tenerla all’oscuro il più possibile. Ovviamente, non posso far passare questa situazione alla mia famiglia ogni volta”. Aveva giocato in tutto 40 partite con la selezione maggiore dell’Irlanda del Nord, più altre 5 con le squadre giovanili: nel momento in cui annunciò il suo addio, lui e i suoi compagni stavano per iniziare il percorso di qualificazione agli Europei del 2004.

Ma il ritiro forzato di Lennon finì per diventare paradossalmente un punto di svolta per la storia, sociale se non sportiva, del calcio nordirlandese. La selezione di McIlroy decise di incontrare gli organizzatori di Football For All, una campagna lanciata due anni prima dalla Federcalcio per combattere il settarismo negli stadi, e che fino a quel momento aveva riscosso scarso successo. L’interessamento dei calciatori permise di attirare l’attenzione di gruppi di tifosi che erano stanchi del settarismo e dei conflitti, e con il supporto economico della federazione vennero dotati degli strumenti per rendere il proprio sostegno alla squadra irlandese ancora più evidente. I fan più estremisti vennero marginalizzati. Jim Rainey, uno dei tifosi di punta del movimento emergente, prese a usare un megafono per lanciare cori divertenti per coprire i canti settari. Ad esempio scandiva “Facciamo finta che segnamo un gol!” (scherzando sulla scarsa vena realizzativa dell’Irlanda del Nord), e il resto del pubblico scoppiava a esultare anche se in campo nulla era successo.
Gradualmente, Windsor Park tornò a rimpiersi di famiglie e tifosi appassionati, mescolando protestanti e cattolici. Nel frattempo, in Scozia Neil Lennon continuò la sua carriera ottenendo grandi successi col il Celtic, prima di ritirarsi nel 2008. Le tensioni etniche in Irlanda del Nord non si sono mai placate del tutto, ma la violenza ha smesso di essere una soluzione, se non per sparute minoranze estremiste su entrambi i fronti. “È una questione sociale. – ha commentato Lennon nel 2022 – Dobbiamo solo continuare a insistere nella lotta contro il settarismo. Stiamo cercando di andare avanti, ma ogni tanto veniamo trascinati indietro”.
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Fonti
–BLACKSTOCK Colin, Northern Ireland football captain quits match after death threats, The Guardian
–GILMOUR Paul, Neil Lennon threat ‘a turning point’ for Northern Ireland campaign, Sky Sports
–MCKAY Neil, Who really threatened to kill Neil Lennon?, Sunday Herald