La conquista della maglia del Barcellona da parte degli sponsor

“Questo è un accordo con un’anima, la Champions a livello sociale.” – Joan Laporta

Quando, a metà ottobre del 2006, il presidente del Barcellona Joan Laporta saliva su un aereo per New York, la storia del club balugrana – o almeno un pezzo importante di essa – stava per cambiare per sempre. Per tutta la sua esistenza, la società catalana aveva strenuamente resistito al richiamo degli sponsor, difendendo la propria divisa da qualsiasi scritta o simbolo estraneo allo spirito del Barça. Unica eccezione, necessaria, la virgoletta della Nike, piccola in alto a destra: il logo dell’azienda che produceva il kit della squadra. Laporta aveva deciso di cambiare le cose, ma inaspettatamente la sua scelta aveva trovato ben poca opposizione: la maglia del Barcellona non sarebbe stata “sporcata”, ma impreziosita dal logo dell’UNICEF, con uno sponsor insolito in cui era lo stesso club a versare dei fondi al soggetto il cui nome compariva sulla divisa, e non il contrario. Anche in questo caso, il Barça dimostrava di essere “più di un club”. Ma in realtà era solo il primo passo di un percorso che sarebbe divenuto molto più problematico in futuro.

Laporta era stato eletto presidente nel giugno del 2003: a soli 41 anni, era il più giovane di sempre a ricoprire quella carica, e la sua promessa era di riportare il Barcellona ai fasti di un tempo. La squadra non vinceva un titolo dal campionato del 1999, ed era ormai opinione comune che si fosse allontanata dal tracciato mitologico di Johan Cruijff. Laporta si poneva come il più devoto cultore della religione blaugrana, e aveva condotto la sua campagna elettorale ponendosi come erede di quella tradizione, avvalendosi dell’appoggio dello stesso Cruijff e garantendo che avrebbe portato in Catalogna David Beckham. Una volta eletto, aveva scelto come direttore sportivo Txiki Begiristain, uno dei simboli del Barça allenato dal Profeta, e il giovane olandese Frank Rijkaard come allenatore. Il suo progetto consisteva nel rinnovare la squadra, puntare su un gioco spettacolare e valorizzare i talenti della Masia come Carles Puyol e Xavi. Si era però presto reso conto di un problema: il Barcellona, per quanto economicamente solido, non poteva competere economicamente con i colossi della Serie A, il Manchester United o il Real Madrid di Florentino Pérez (che infatti gli strappò Beckham, pagandolo 35 milioni di euro e offrendogli un contratto da 6 milioni a stagione).

Alla fine, a Laporta non andò malissimo: ripiegò sul meno costoso Ronaldinho, e attorno seppe costruirgli una squadra che nel giro di tre stagioni riuscì a conquistare due campionati, una Supercoppa spagnola e una Champions League. L’accordo con l’UNICEF era quindi un’eccezione che non faceva che rinforzare lo spirito blaugrana incarnato da Laporta, in cui la squadra più spettacolare e vincente al mondo si faceva portavoce di un’importante causa sociale, anteposta alle necessità economiche di cui erano preda gli altri club. Nel 2008, la coraggiosa scelta di Pep Guardiola come allenatore rappresentava un altro tassello nella protezione del mito blaugrana da parte del presidente: un allenatore giovane e offensivista, allievo di Cruijff e intenzionato a valorizzare il settore giovanile. E, come si dimostrerà fin da subito, estremamente vincente. L’epoca di Laporta è stata fondamentale nel costruire la leggenda del Barcellona com’è conosciuta oggi, ma anche per avviare la sua trasformazione, paradossalmente, in un prodotto finanziario al pari – se non addirittura più estremo – delle altre società di calcio europee.

Ronaldo con l’intonsa maglia del Barcellona nella stagione 1997/98.

La questione degli sponsor sulle maglie da calcio ha una storia lunga e tortuosa. Tra i pionieri vanno sicuramente ricordate le società italiane come il Vicenza, che nel 1953 venne acquistata dalla Lanerossi cambiando nome e logo per adeguarsi al proprietario-sponsor (anticipando, in parte, il metodo Red Bull), e il Torino, che nel 1958 si accordò per una ricca sponsorizzazione con la Talmone, aggiungendo alla propria maglia una vistosa “T” all’altezza del cuore. Un ulteriore capitolo di questa storia era stato scritto negli anni Settanta in Germania, quando l’Eintracht Braunschweig aveva iniziato a portare sul petto il logo e il nome della Jägermeister. Dagli anni Ottanta, gli sponsor sulle divise delle squadre avevano iniziato a spadroneggiare, e pian piano i soldi che erano disposti a versare nel settore avevano fatto cadere ogni resistenza. Tra le grandi squadre, il Barcellona era senza dubbio una clamorosa e mirabile eccezione, anche dopo la scelta dell’UNICEF. Ma nel giugno del 2010, anche i blaugrana si avviavano alla caduta delle loro più strenue resistenze. In quel momento, Sandro Rosell diventava nuovo presidente del club, alla scadenza del mandato di Laporta, di cui era stato uno dei principali sostenitori e di cui si poneva come legittimo erede.

Già a dicembre di quell’anno, Rosell compì un altro piccolo ma deciso spostamento verso le sponsorizzazioni vere e proprie. Pur mantenendo l’accordo con UNICEF, il nome sulla maglia diventava quello di un’altra associazione benefica, la Qatar Foundation. Con un paio di particolarità: questa volta, era lo sponsor sulla maglia a pagare il club (e non poco: 150 milioni di euro in cinque anni, una delle sponsorizzazioni più ricche del calcio globale), e soprattutto la fondazione era in realtà uno strumento di propaganda del regime del Qatar, che attraverso le sue ricche donazioni nascondeva le spietate violazioni dei diritti umani commesse dal governo di Doha. Nel giro di cinque anni, la “Champions a livello sociale” di Laporta si era trasformata nel perverso legame tra il Barça e uno dei regimi più discutibili sulla faccia del pianeta, che attraverso i blaugrana puntava a consolidare il proprio ruolo nel calcio in vista dei Mondiali del 2022 (che gli erano stati assegnati pochissimi giorni prima dell’accordo con il club spagnolo). Poco meno di cinque anni dopo, sotto la presidenza di Josep Bartomeu, il Barcellona passò da Qatar Foundation a Qatar Airways, abbandonando definitivamente la scusa dell’umanitarismo in cambio di 70 milioni di euro a stagione fino al 2021: lo sponsor più ricco di sempre nel calcio.

Le necessità del Barcellona erano abbastanza evidenti: nell’estate del 2013 il club aveva speso oltre 88 milioni di euro per strappare al Santos Neymar, in un’operazione che alla fine aveva portato a indagare Rosell per aver cercato di nascondere il reale costo del trasferimento, e dopo le sue dimissioni anche il successore Bartomeu si era ritrovato sotto indagine per evasione fiscale. Da quel momento in avanti, le spese del Barça iniziarono a crescere oltre misura: 82 milioni nel 2014 per Luis Suárez; 67 nel 2016 per i modesti André Gomes e Paco Alcácer; addirittura 270 nel 2017 per Philippe Coutinho e Ousmane Dembélé; 206 nel 2019 per Antoine Griezmann e Frenkie de Jong. Con la successiva crisi innescata dalla pandemia del COVID-19, la realtà dei conti del Barcellona venne a galla: invece che garantire la prosperità economica, i ricchi sponsor dei blaugrana erano stati usati da Bartomeu per spendere senza controllo. Nell’autunno 2021, il club rivelava di avere debiti con le banche per oltre 500 milioni di euro. La maglia era stata “sporcata” e le casse della società dilapidate. Nel frattempo, il nome dell’UNICEF era scivolato da tempo sul retro della divisa, relegato in un piccolo spazio marginale.

Bartomeu pagò per il disastro, dimettendosi nell’ottobre 2020, e alle nuove elezioni si ripresentò, nuovamente con l’aura del Salvatore, Joan Laporta, che riuscì senza difficoltà a venire eletto. Ma il ritorno dell’amato presidente non andò come sperato: l’uomo che aveva aperto per la prima volta all’UNICEF, fu anche quello che chiuse per sempre questa vicenda, annunciando nella primavera del 2022 che l’accordo con l’organizzazione non sarebbe stato rinnovato. Il Barcellona accolse un nuovo sponsor “umanitario”, per la verità, ovvero l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ma la differenza rispetto al vecchio legame con l’UNICEF era evidente: all’associazione per l’infanzia, il Barça originariamente versava 1,5 milioni all’anno, mentre all’UNHCR ne avrebbe donati appena 400.000 in quattro anni. Parallelamente, siccome servivano soldi, Laporta iniziò la grande svendita, ipotecando per vent’anni il 25% dei diritti tv del club e il 49% di BLM, la società che gestiva il merchandising del club. E poi un nuovo ricchissimo sponsor di maglia: Spotify, che versava un minimo di 435 milioni per comparire sulla divisa blaugrana e per dare il proprio nome al Camp Nou. Non solo la maglia, adesso, ma pure lo stadio era caduto preda del marketing.

Lo sponsor dell’UNICEF sulla maglia di Messi del Barcellona, nella stagione 2011/12.

Nel giro di 15 anni, il Barcellona era passato dal vanto di essere una delle poche maglie senza sponsor nel calcio europeo, a essere il club più sponsorizzato di tutti. L’anima di cui parlava il giovane Laporta, si era finalmente incarnata, facendosi brand. L’accordo con Spotify è stato in realtà una sponsorizzazione al cubo: oltre a mostrare il logo del servizio di streaming musicale, in alcune occasioni speciali esso veniva sostituito con brand di famosi artisti della scena internazionale legati a Spotify: il gufo di Drake, una maglia speciale con le farfalle simbolo di Rosalía, un’altra con la linguaccia dei Rolling Stones, un’altra ancora con il cuore “spinato” di Karol G. Nel luglio del 2024, il presidente ha sistemato un altro tassello di questa deriva commerciale, accordandosi con l’azienda di disinfettanti Medusa, con sede negli Emirati Arabi Uniti, per mostrarne il logo sui pantaloncini della squadra in cambio di 15 milioni di euro in tre stagioni. Nel frattempo, i debiti del club sembrano essere addirittura cresciuti, anche se per effetto della precedente gestione. La maglia un tempo intonsa del Barcellona oggi dà l’impressione di potersi presto trasformare in uno di quei lampioni delle grandi città, invasi da adesivi e loghi di ogni tipo.

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Fonti

Barcelona agree €150m shirt sponsor deal with Qatar Foundation, The Guardian

Il Barcellona cambia lo sponsor benefico, Social Media Soccer

RICCI Filippo Maria, Il Barça fa acqua, avanti con gli sponsor: e sulle maglie spazio a Spotify, La Gazzetta dello Sport

SORRENTINO Andrea, Barcellona, accordo da 70 milioni all’anno: è blaugrana la maglia più ricca, La Repubblica

ZAKARI Abdul Rashid, How Barcelona Has Been Cashing in On Front-of-Shirt Sponsors, Urban Pitch

1 commento su “La conquista della maglia del Barcellona da parte degli sponsor”

  1. Ho due riflessioni da fare, che però riguardano forse più il capitalismo che il calcio:
    1. aveva davvero ragione Lenin, quando diceva che il capitalista ti venderà anche la corda con cui lo impicchi. E anzi forse una delle caratteristiche precipue del capitalismo contemporaneo è proprio la sua capacità di mettere a profitto anche entità “immateriali”, come l’anima del Barcellona;
    2. il discorso sulla pretesa “meritocrazia” del capitalismo perde ogni senso proprio in storie come questa: nel momento in cui compare Perez sulla scena, l’unica possibilità che hanno gli altri è di competere al suo gioco, o morire.

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