Eintracht e capitalismo

Lo Jägermeister ha una storia di quasi 150 anni, anche se poi hanno iniziato a produrlo veramente solo nel 1934, all’alba del periodo hitleriano, in una cittadina della Bassa Sassonia di nome Wolfenbüttel. È inutile stare a dire che gli ingredienti sono un segreto aziendale, ma la ditta ci tiene a far sapere che in ogni bottiglia trovate 53 erbe miscelate a frutti e spezie, messi a macerare nell’alcol. Il logo è un cervo, perché a qualcuno parve per qualche ragione appropriato un bel riferimento all’agiografia di Sant’Eustachio, un martire del II secolo che aveva avuto una visione di Cristo crocifisso tra le corna di un cervo. Il nome del liquore, tradotto dal tedesco, significa “guardiacaccia”, e su ogni etichetta ci sono dei versi di Oskar von Riesenthal, ornitologo, guardiaboschi e scrittore ottocentesco. Ormai lo trovate praticamente in ogni bar, per cui ora avete qualche aneddoto da raccontare.

Ma di che diamine stai parlando? Del capitalismo. O meglio, di una storia di capitalismo. O meglio ancora, di una storia di calcio e capitalismo, che per certi versi le racchiude tutte, e che potrebbe essere dedicata a tanti di quelli che, lamentandosi del cosiddetto “calcio moderno”, tendono a pensare che sia esistito un “calcio antico” libero dalla maledizione del business. Siamo in Germania, e più precisamente nella Bassa Sassonia, nella grossa città che sta una decina di chilometri più a nord di Wolfenbüttel, Braunschweig, che a volte potreste aver sentito chiamare pure Brunswick, secondo la pronuncia nel dialetto locale. Il periodo sono i primi anni Settanta.

Qua c’è una squadra di calcio che, proprio alla fine del decennio precedente, conquistava il titolo nazionale e faceva presagire chissà quale futuro, e invece adesso è retrocessa e si ritrova con le casse vuote e i tifosi col coltello tra i denti. Il presidente Ernst Fricke capisce che bisogna trovare i soldi da qualche parte, prima che i soci chiedano la sua testa. Per sua fortuna, compare Günther Mast: è il presidente della Jägermeister – eccola! – e l’estate precedente, durante gli Europei di calcio, si è improvvisamente accorto che questo sport di cui non sapeva nulla è un fenomeno mediatico impressionante. Una sera ha invitato degli amici in giardino a bersi qualche birra, all’improvviso due si sono assentati un attimo e non sono più tornati: li ritrova in un pub, stracolmo di persone, ad assistere a Germania Ovest – Belgio, e capisce che nel calcio c’è un potenziale commerciale immenso che nessuno sta sfruttando. Così, quando scopre dei debiti della squadra locale, va da Fricke e si propone come sponsor. Sì, facile oggi dire “sponsor”: nel 1972, nel calcio, questo era un concetto molto più fumoso. I regolamenti vietavano categoricamente di aggiungere nomi di aziende sulle maglie.

Qualcuno aveva provato ad aggirarli anni prima, ovviamente in Italia: nel 1953, il colosso tessile veneto Lanerossi aveva acquistato il Vicenza e lo aveva trasformato in un ramo della propria azienda, cambiandone il nome in Lanerossi Vicenza e sostituendo il logo del club con il proprio. Credevate che queste cose le avesse inventate la Red Bull, vero? Beh, vi sbagliavate. Pochi anni dopo, si era verificato un caso di vera a propria sponsorizzazione, quando la Talmone – nota fabbrica torinese che produceva cioccolato – firmò un accordo di tre anni con il Torino, a quei tempi in piena crisi post-Superga, e ne fece modificare il nome in Talmone Torino, aggiungendo una grossa “T” bianca sulla maglia, che ovviamente poteva stare sia per il nome dell’azienda che del club. Il Toro retrocesse clamorosamente e la dirigenza risolse immediatamente il contratto, tra le ovazioni della tifoseria.

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La rosa dell’Eintracht Braunschweig in allenamento, in una delle prime stagioni della gestione Jägermeister, come dimostra il logo dell’azienda sulle maglie.

Non si sa se Mast abbia studiato questi precedenti, e francamente poco importa: la sua proposta è una donazione annuale di 100.000 marchi in cambio del logo della Jägermeister sulle casacche dell’Eintracht Braunschweig. E, siccome ovviamente questa cosa non si può fare, Fricke pensa bene di far votare dall’assemblea dei soci il cambio dello stemma ufficiale del club, adottando il cervo dello sponsor. Curiosamente, il logo originale dell’Eintracht era un leone: da predatore a preda, il cambio non è poi così rilevante, se il predatore è squattrinato e la preda è milionaria.

Con i soldi della Jägermeister alle spalle, l’Eintracht Braunschweig riconquista subito un posto in Bundesliga, e come primo rinforzo imbarca l’allenatore Otto Knefler per sostituirlo con Branko Zebec, non proprio il tecnico che ti aspetteresti sulla panchina di una neopromossa: nel 1967, Zebec aveva guidato la Dinamo Zagabria alla conquista della Coppa delle Fiere, primo titolo europeo messo in bacheca da un club jugoslavo; poi si era trasferito al Bayern Monaco – d’altronde in Germania aveva chiuso la carriera, con la maglia dell’Alemannia Aquisgrana – dove nel 1969 aveva vinto il secondo scudetto della storia del club, il primo del moderno periodo vincente dei bavaresi, tutt’oggi in corso. Dopo un’esperienza meno soddisfacente allo Stoccarda, era tornato in patria, e aveva condotto lo Hajduk Spalato alla vittoria nella coppa nazionale.

Zebec fa subito aggiungere alla rosa due dei suoi pupilli dei tempi dello Stoccarda, il carismatico centrocampista Karl-Heinz Handschuh, e la giovane punta Wolfgang Frank, che proprio il tecnico slavo aveva fatto esordire tra i professionisti. In aggiunta, convince a trasferirsi in Germania il forte esterno mancino Aleksandar Ristić del Velež Mostar, che subito diviene il suo uomo di riferimento in campo e nello spogliatoio. Con questi rinforzi, l’Eintracht Braunschweig chiude al nono posto la sua prima stagione dopo il ritorno in Bundesliga, offrendo ai tifosi un calcio organizzato e convincente. Così, il club riesce a mettere le mani su Dieter Zembski, colonna della difesa del Werder Brema, e su un altro asso del calcio jugoslavo, l’attaccante dell’Olimpija Ljubljana Danilo Popivoda. Parallelamente, Zebec fa esordire in prima squadra giocatori molto interessanti cresciuti nel settore giovanile: il mediano Wolfgang Dremmler, il difensore Wolfgang Grobe e il regista Uwe Krause. Con questi giocatori, l’Eintracht arriva al quinto posto nel 1976 e si qualifica per la Coppa UEFA, dove la stagione successiva si arrenderà però ai sedicesimi contro l’Espanyol.

Il terzo posto in campionato ottenuto nella stagione 1976-77 conferma la progressiva crescita della squadra della Jägermeister, nonostante le antipatie dei tifosi tedeschi: ora, Zebec vuole togliere al Borussia Mönchengladbach il predominio della Bundesliga. Per fare questo servono nuovi innesti: il primo è Peter Lübeke, talento cristallino ma mai completamente sbocciato, che arriva dall’Ajax; il secondo è Hasse Borg, roccioso difensore della nazionale svedese, sotto contratto con l’Örebro. Poi, all’improvviso, salta fuori un coniglio dal cilindro.

Dalla Spagna arriva una notizia clamorosa: Paul Breitner lascia il Real Madrid! Sua moglie vuole tornare in Germania, e lui è stanco dei fischi dei tifosi, che vorrebbero che vincesse da solo ogni partita. Ma in Bundesliga nessuno può permettersi di pagare 1.600.000 marchi come chiesto dal Real, e poi coprire anche i 400.000 marchi d’ingaggio di Breitner. Nessuno a parte un’azienda ricchissima che, incidentalmente è anche sponsor di un club di calcio: Günther Mast intuisce che l’arrivo di Breitner all’Eintracht Braunschweig può portare benefici incredibili alla squadra, sia a livello tecnico che d’immagine, e a cascata anche alla sua azienda, che si ritroverebbe ad avere come testimonial il più famoso calciatore tedesco al mondo. Mast ci mette i soldi di tasca sua, va addirittura a prendere Breitner a Madrid con un volo privato, e il clamoroso trasferimento diventa realtà.

Breitner
Paul Breitner con la maglia dell’Eintracht Braunschweig e il logo della Jägermeister sul petto. Nella stagione 1977-78 segnerà complessivamente 15 reti: 10 in campionato, 4 in Coppa di Germania e 1 in Coppa UEFA.

È l’ennesima shockante operazione che porta il nome di quello che ormai per molti è lo Jägermeister Braunschweig: in un sistema di club di calcio che sono ancora formati da soci, in cui girano pochissimi soldi e si punta tantissimo sui settori giovanili, mentre i calciatori hanno di fatto un status semi-professionistico, questa società ha appena compiuto una rivoluzione capitalista da cui non esiste ritorno. Da quando è comparso il marchio sulla maglia, un intero modo di pensare il calcio è crollato: ora, sulla divisa dell’Amburgo c’è scritto “Campari”, su quella dell’Eintracht Francoforte “Remington”, su quella del Fortuna Düsseldorf “Allkauf”, “Brian Scott” sulla maglia del MSV Duisburg e “Adidas” su quella del Bayern Monaco. E adesso lo Jägermeister Braunschweig sdogana anche i super-trasferimenti e i super-ingaggi. “Le rimostranze dei tifosi? Non le capisco: al pubblico non dovrebbe importare di queste cose. – sostiene, con sprezzante lucidità mercatista, Günther Mast – Conta che ci siano i soldi, per comprare i giocatori che servono, anche all’estero. Si vive di denaro, non di tifo: la gente deve capire che le società sportive sono imprese.”

È l’alba del calcio-azienda, in cui i risultati sono anche un fattore secondario, a ben vedere. Infatti, la scandalosa operazione Breitner, in campo, dà ben pochi frutti: il fuoriclasse tedesco non riesce a incidere, non è mai al centro del gioco come era stato in passato. Il rapporto coi compagni non si consolida mai: quelli dell’Eintracht sono onesti calciatori, guidati da un rigido allenatore di meritocratica cultura socialista; Breitner è una star superpagata che ha sempre i giornalisti intorno, e ti guarda come se la dovessi a lui, l’aria che respiri. I compagni lo isolano, e lui non fa nulla per cambiare le cose, crogiolandosi nella convinzione che siano solo invidiosi di lui.

La stagione ha anche i suoi buoni momenti, ad esempio all’esordio in Coppa UEFA, dove l’Eintracht sovverte il pronostico ed elimina la fortissima Dinamo Kiev di Lobanovski e Blochin, che due anni prima aveva conquistato Coppa delle Coppe e Supercoppa europea, ed era reduce da una semifinale di Coppa dei Campioni. Poi però la squadra si sfalda, e viene travolta agli ottavi dal PSV Eindhoven dei fratelli Van de Kerkhof, che poi solleverà il trofeo. Si ferma agli ottavi anche in Coppa di Germania, sconfitta dal Fortuna Düsseldorf, poi finalista. In Bundesliga, invece, va tutto malissimo, e il club chiude con un deludente tredicesimo posto.

Da un punto di vista economico e d’immagine, si può sorridere, ma sul piano sportivo è un disastro: Breitner non ha portato il salto di qualità necessario a vincere lo scudetto, e anzi ha spaccato lo spogliatoio. Per tutta la stagione, i giornali non hanno fatto che riportare notizie di litigi coi compagni – Popivoda e il portiere Bernd Franke, che è pure capitano, sono quelli che lo sopportano meno – criticare gli equilibri precari della squadra, o lanciare indiscrezioni secondo cui Breitner sarebbe in contatto con i suoi amici del Bayern, per capire se lo riprenderebbero. A campionato finito, pronuncerà una frase celebre: “Faccio un favore a tutti: me ne vado”.

Al suo posto arriva il più malleabile Harald Nickel dallo Standard Liegi, ma Breitner non è l’unico ad andarsene. I veterani Wolfgang Grzyb e Aleksandr Ristić si ritirano, e Zebec firma per allenare l’Amburgo, portandosi dietro il bosniaco come vice. Al suo posto, viene nominato Werner Olk, reduce da una stagione in seconda divisione con l’Augsburg. Arriva un anonimo nono posto in campionato, cambia ancora l’allenatore – ora tocca a Heinz Lucas – ma la sensazione è che il progetto dello Jägermeister Braunschweig sia ormai tramontato: Dremmler viene ceduto al Bayern, dove raggiunge proprio Breitner, Frank va al Borussia Dortmund e Nickel passa al Mönchengladbach. Un anno dopo, l’Eintracht retrocede, e nel giro di poche stagioni lasciano la squadra anche Zembski, Handschuh e Lübeke, ritiratisi; Krause, che passa ai francesi del Laval; Grobe, anche lui diretto al Bayern; Popivoda, di ritorno in Slovenia; e Borg, che si accasa al Malmö.

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Una foto promozionale in cui tre giocatori dell’Eintracht posano in completo Jägermeister. Al centro c’è Wolfgang Grzyb, infaticabile tuttocampista e una delle bandiere del club, con cui ha giocato dal 1965 al 1978.

La crisi esige un cambio ai vertici, ed è Günther Mast a prendersi la presidenza, tra tifosi sempre più sconsolati che vedono ormai la loro squadra trasformata in un’azienda e manovrata da imprenditori che nulla hanno a che vedere con il calcio. A un certo punto, Mast annuncia di voler cambiare ufficialmente il nome del club in Jägermeister Braunschweig: scoppia una nuova polemica, i giornali tedeschi tornano a parlare di loro, ma stavolta i soci insorgono, e appare chiaro a molti che Mast, da salvatore, sia diventato ormai una figura troppo ingombrante. Il magnate ricorre a un tribunale, ma nel frattempo viene rimosso dalla carica, e la sua nuova rivoluzione si interrompe qui. Dopo tre stagioni senza infamia e senza lode in Bundesliga, nel 1985 l’Eintracht subisce un’altra retrocessione, e due anni dopo precipita inaspettatamente in terza serie. A questo punto, Mast lascia scadere il contratto di sponsorizzazione e la storia si conclude.

Nei tre lustri che è durato, l’accordo tra Jägermeister e Eintracht Braunschweig ha dato grande visibilità all’azienda di Wolfenbüttel, accompagnando la sua affermazione come marchio internazionale, in cambio di effimera gloria per la squadra di calcio, che tornerà a calcare i campi della Bundesliga solo nel 2013, subendo una pronta retrocessione e una nuova fase di declino. Ma il figlio più grande di questa unione è stato un calcio nuovo, non per motivazioni tattiche ma economiche, che ancora oggi impera in Germania e all’estero. A Braunschweig, il capitalismo ha vinto una delle sue partite più importanti.

 

Fonti

AFFOLTI Stefano, Wormatia e Braunschweig pionieri degli sponsor, Gente di Calcio

COSTANTINI Daniele, 1973-2013: Quarant’anni di sponsor sulle maglie da calcio, Passione Maglie

Paul Breitner e il Braunschweig – Il dramma delle gelosia, La Soffitta del Fusball

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