“Football is Coming Home”: ma l’Inghilterra è davvero la patria del calcio?

Ogni volta può essere la volta buona per vedere il calcio tornare a casa. L’Inghilterra insegue questo sogno dal 1966 – anche se lo slogan Football comes home, con tutte le sue possibili varianti, risale appena al 1996 – quello di tornare a vincere un torneo internazionale dopo il Mondiale casalingo di Banks, Moore e Charlton (almeno a livello maschile: le donne sono campionesse d’Europa in carica). Come una sorta di “destino manifesto” britannico in salsa sportiva: qui è nato e qui ne siamo proprietari di diritto; gli altri ne possono essere al massimo dei gestori. Nazionalismo sportivo, se vogliamo proprio vogliamo dirla tutta. Un’Inghilterra ormai decadente, privata di quell’impero (convenzionalmente detto “britannico”, ma in realtà sempre inglese) che per quasi quattro secoli ne è stato l’immagine e il vanto, a cui oggi non resta che il pallone a cui aggrapparsi come simbolo identitario e mito fondante della Englishness. Ma quanto c’è di vero sotto tutta questa retorica? In realtà, meno di quanto si pensi.

“Le Olimpiadi tornano a casa” era d’altronde lo slogan che aveva accompagnato i Giochi del 2004 ad Atene, e a tutti era logicamente sembrato legittimo ritenere la Grecia la patria delle Olimpiadi, per ragioni storiche. Eppure proprio la Storia ci suggerisce di guardarci bene da questo mito: i precursori delle Olimpiadi sono da ricercare già nelle competizioni sportive di epoca minoica, cioé sull’isola di Creta, e di sicuro la sede delle Olimpiadi antiche era la città di Olimpia, nell’attuale Grecia occidentale, a quasi 300 km da Atene. A riportare in auge i Giochi nel III secolo a.C. fu Licurgo re di Sparta, e le Olimpiadi moderne sono assolutamente un’invenzione francese: furono recuperate già alla fine del Settecento, in epoca rivoluzionaria, per poi rinascere ufficialmente un secolo dopo su iniziativa di Pierre de Coubertin. Nulla a che vedere con Atene, dunque; avrebbe anzi più senso dire che le Olimpiadi torneranno finalmente a casa tra qualche giorno, dato che De Coubertin era parigino e proprio nella capitale francese nacque, nel 1894, il CIO.

Col calcio possiamo fare un discorso simile. Siamo tutti d’accordo che l’atto di nascita ufficiale del gioco sono le regole di Sheffield del 1857, anticipate in parte da quelle di Cambridge del 1848: il football nasce tra le public school dell’Inghilterra meridionale e le fabbriche di quella settentrionale, pescando da un gioco omonimo molto popolare nelle campagne inglesi fin dal XVI secolo. Su questo pochi dubbi. Ma se proprio vogliamo parlare di radici, come possiamo ignorare che la nascita del calcio è durata millenni, e il 1857 è solamente un punto nel tempo tra tanti che utilizziamo convenzionalmente come data d’inizio? Nel 1586 una spedizione inglese alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest transitava accanto alle coste della Groenlandia, e il capitano John Davis annotava sul suo diario di aver visto gli indigeni di quella zona giocare al “football”: un segno inequivocabile che, già a quel tempo, era diffuso nelle popolazioni amerindie un sport che gli stessi inglesi associavano al loro football. Sappiamo inoltre che un gioco simile era presente anche tra le altre popolazioni pre-colombiane sparse su tutto il continente.

Il sito della FIFA indica che la forma più antica del gioco del calcio va fatta risalire alla Cina del III millennio a.C., il cosiddetto Tsu’ chu, che si è probabilmente poi trasformato nel giapponese Kemari. Non molto tempo dopo, un altro gioco di questo tipo era diffuso in Egitto, e potrebbe essere stato all’origine dell’Episkyros greco. Quest’ultimo fu poi adottato dai Romani e ribattezzato Harpastum, diffondendosi grazie ai soldati in tutte le zone di frontiera dell’impero, compresa l’allora Britannia (ma è stato quasi certamente anche il precursore del Calcio che si praticava nella Firenze del Rinascimento, da cui all’inizio del Novecento noi italiani abbiamo tratto il nome per “nazionalizzare” il football). Il calcio moderno nasce senza dubbio in Inghilterra, ma è frutto di un percorso e di un’evoluzione che ha abbracciato varie culture e civiltà sparse in tutto il mondo. E l’esempio delle popolazioni pre-colombiane, che difficilmente avevano potuto importare il gioco dall’Europa o dall’Asia, dato il loro isolamento, sembra suggerire che l’idea alla sua base fosse già un patrimonio collettivo dell’umanità, capace di nascere e svilupparsi indipendentemente dai contatti diretti tra i popoli.

La prima menzione dello Tsu’ chu si ritrova nello “Zhan Guo Ce”, un testo composto tra il V e il III secolo a.C., mentre questo dipinto è opera dell’artista Du Jin, vissuto nella seconda metà del XV secolo. Quelle raffigurate sono donne che giocano a pallone.

Si dirà: va bene, ma il calcio che pratichiamo oggi – e che gli inglesi vogliono “riportare a casa” – è effettivamente un’idea inglese e di nessun’altro, pur con tutte la storia che la precede. Invece anche qui qualche appunto andrebbe fatto: tutti gli storici dello sport riconoscono il valore che hanno avuto gli scozzesi nello sviluppo e nell’affermazione del gioco nei suoi primissimi anni. Se non fosse stato per loro e il loro passing game, oggi praticheremmo e guarderemmo una cosa completamente diversa. Eppure la co-paternità scozzese del calcio non è un argomento di discussione in nessun ambito, e nessuno scozzese si sognerebbe mai di dire che “Football’s coming home”, davanti ai buoni risultati (utopistici, per il momento) della sua Nazionale. E che dire degli svizzeri? Quando hanno eliminato l’Italia in questi Europei sono stati generalmente trattati come una delle ultime sorprese del calcio contemporaneo, quando in realtà furono le scuole svizzere a fare da incubatrici del gioco e a diffonderlo in tutto il continente, e da lì nel mondo. Niente Svizzera, niente Europei. Oggi ci esaltiamo per le prodezze di Lamine Yamal, ma sottovalutiamo del tutto il fatto che, oltre alle radici marocchine ed equatoguineane del ragazzo, ce ne sono altre che risalgono a quando, alla fine dell’Ottocento, un giovanotto svizzero di nome Hans Gamper andò a trovare lo zio a Barcellona portando con sé un pallone e i colori del Basilea.

Anzi, a voler essere sinceri, il calcio moderno è – proprio come le Olimpiadi – un’idea molto più francese che di chiunque altro. La FIFA è nata nel 1904 a Parigi e il suo primo presidente è stato un transalpino, Robert Guérin: tra i fondatori dell’associazione, l’Inghilterra non c’era neppure (mentre figuravano, oltre alla Francia, Belgio, Danimarca, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera). Francese è la Coppa del Mondo, ideata da Jules Rimet; è l’Europeo, pensato da Henry Delaunay; è la UEFA, voluta anch’essa da Delaunay e fondata a Parigi con il supporto di Italia e Belgio. E poi la Champions League, ex-Coppa dei Campioni, e il Pallone d’Oro, entrambi invenzioni francesi. Il volto del calcio come lo conosciamo oggi viene definito in Francia; gli inglesi non avevano mai avuto alcun interesse a diffonderlo fuori dai propri confini, al punto da rifiutare di prendere parte alle prime edizioni dei Mondiali e anche della Coppa dei Campioni. Se vogliamo proprio parlare di paternità, dobbiamo anche essere schietti e riconoscere che questo figlio è stato abbandonato in fasce dal suo genitore e poi cresciuto da qualcun altro, senza cui oggi non sarebbe ciò che è.

Agli inglesi va riconosciuta di sicuro una particolare coerenza filosofica, in tutta questa vicenda. La rivendicazione odierna del It’s Coming Home discende da quello stesso atteggiamento protezionistico che avevano avuto all’inizio della storia del calcio moderno: uno sport solo loro, esclusivo (all’inizio ci potevano giocare unicamente i ricchi maschi inglesi bianchi: la lotta per espropriarlo a questa ottusa élite è stata lunga e tortuosa) e di cui, dopo che è stato sottratto ai suoi “padroni”, vuole essere riconquistato a tutti i costi. Un atteggiamento che si ritrova anche nella celebre diatriba tra football e soccer, quasi mai raccontata bene: fino agli anni Settanta, anche nel Regno Unito si diceva comunemente soccer, come termine alternativo ed equivalente a football. Gli inglesi scelsero di trasformare quest’ultimo termine in un proprio elemento identitario, utilizzandolo come esempio (fasullo, appunto) della loro legittimità su questo sport, in opposizione agli “usurpatori” nordamericani, e disconoscendo così la parola soccer che loro stessi avevano inventato un secolo prima.

Un altro aspetto ironico di questa retorica cripto-nazionalista – e solo apparentemente innocua – è che la squadra che potrebbe finalmente ricondurre a casa il calcio è in realtà composta da giocatori, ma anche da un ct, che si sono formati in un contesto di gioco definito soprattutto da allenatori che inglesi non sono: questi Three Lions sono figli di una Premier League che deve tutto allo scozzese Alex Ferguson, al francese Arsène Wenger e al catalano Pep Guardiola (e poi, secondariamente, a italiani come Ranieri, Sarri e Conte, al portoghese Mourinho, al basco Arteta, all’argentino Pochettino, al tedesco Klopp, eccetera). Cosa è rimasto, in questi 157 anni di storia, della “Casa del calcio”? Il modello storico del calcio inglese è stato spazzato via a Wembley il 25 novembre 1953. A ricostruirlo ci hanno pensato degli scozzesi come Matt Busby, Tommy Docherty e Bill Shankly. Ed è senza dubbio un pregio il saper apprendere dagli altri e ibridare le nostre tradizioni con quelle di paesi differenti; basta avere la capacità di riconoscerlo.

Lo svedese Sven-Göran Eriksson è stato il primo non-inglese ad allenare i Three Lions, tra il 2001 e il 2006. Qui è accanto all’allora giocatore Gareth Southgate, dal 2016 ct dell’Inghilterra.

L’ossessione identitaria degli inglesi per il football è comunque pari alla nostra di italiani per la cucina, ciò che Michele Antonio Fino ha chiamato “gastronazionalismo” e che alcuni studiosi come Alberto Grandi (da ascoltare assolutamente il suo podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata) cercano fortunatamente di smontare. Entrambe si basano sulla costruzione di tradizioni illusorie e semplicistiche: le radici del calcio possono essere considerate inglesi solo se identifichiamo la sua storia come qualcosa di limitato alla metà dell’Ottocento, ignorando gran parte di ciò che è avvenuto prima e in seguito. Può sembrare esagerato fare tutte queste storie per uno slogan sportivo, ma il punto è che la mentalità che lo ha partorito spesso ragiona allo stesso modo anche quando si rivolge ad altri argomenti, anche più seri. In conclusione, il calcio non tornerà a casa, non più di quanto lo abbia fatto nel 1984 con il primo trionfo della Francia o di quanto lo farà il giorno in cui, in un distante futuro, una selezione di indigeni groenlandesi conquisterà il titolo mondiale. E anche se l’Europeo dovesse essere davvero vinto dai Three Lions, gli inglesi si ritroveranno tra le mani un gioco che è ormai irriconoscibile rispetto a quello che avevano codificato nel 1857. Sapranno accoglierlo come uno di loro, nonostante tutte le culture con cui si è incrociato nel frattempo, o ne chiederanno la deportazione in Ruanda?

Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.

Fonti

-BUNK Brian D., From Football to Soccer, ‎ University of Illinois Press

GINEPRINI Nicholas, E se il calcio fosse nato in Cina?, L’Ultimo Uomo

-HARVEY Adrian, Football: The First Hundred Years. The Untold Story, Taylor & Francis

History of Football – The Origins, FIFA.com

1 commento su ““Football is Coming Home”: ma l’Inghilterra è davvero la patria del calcio?”

  1. Mi sembra che il paradigma migliore per interpretare questi fatti è quello fornito da Hobsbawm: l’invenzione della tradizione. Quello che è successo è stato semplicemente che ad un certo punto gli inglesi hanno deciso di codificare un gioco che era diffuso ovunque con regole leggermente diverse; poi, per guadagnare dei “gradi”, attorno a questo atto (burocratico, direi) hanno creato una storia che non esisteva.

    Piace a 1 persona

Lascia un commento