Renato Sanches si è rivolto a uno stregone per “guarire” da una maledizione che lo tormenta e che sarebbe la causa dei suoi numerosi infortuni. L’avete sentito dire anche voi, vero? Non c’è nulla di strano, visto che a pubblicare questa notizia, martedì mattina, è stata addirittura La Repubblica, che è poi stata ripresa dai numerosissimi siti di news che gravitano attorno alla galassia romanista, ovviamente sempre in maniera del tutto acritica. Al punto che lo stesso centrocampista è dovuto intervenire poche ore dopo per spiegare che non era assolutamente vero: il quotidiano aveva semplicemente interpretato in modo molto libero una frase di Sanches, che scherzando con un ex compagno di squadra aveva detto che forse qualcuno gli ha fatto una maledizione, visti tutti i guai fisici che sta avendo. Se avesse avuto la pelle bianca, probabilmente chiunque avrebbe colto al volo che non stava parlando sul serio. Tipo in questo recente articolo del Corriere dello Sport sulla “maledizione” di Allegri, che non aveva mai battuto in casa propria una squadra allenata da Ranieri: nessuno ha pensato neppure per un istante che sul serio fosse stato lanciato il malocchio sul tecnico della Juventus.
Però una storia come quella di Sanches non è che sia proprio una novità nella cronaca calcistica europea, anzi. Nel gennaio 2021 fece molto discutere una frase rivolta da Ibrahimović a Lukaku durante un litigio in una sfida tra Milan e Inter, in cui lo svedese accusò il belga di fare dei riti voodoo. Non era una cosa che Ibrahimović si era inventato quella sera, ma una leggenda urbana fatta circolare dall’azionista di maggioranza dell’Everton, l’imprenditore britannico di origine iraniana Farhad Moshiri, a un’assemblea dei soci del club nel gennaio 2018. Moshiri aveva spiegato che Lukaku avrebbe voluto rinnovare coi Toffees, ma sua madre lo portò a fare “un pellegrinaggio in Africa, una sorta di voodoo”, e l’attaccante decise invece di passare al Manchester United. Ovviamente, all’epoca numerose testate europee si gettarono sulla notizia del calciatore africano che gestisce la propria carriera in base a superstizioni tribali (poco importa che Lukaku sia nato e cresciuto ad Anversa), che così ebbe grande fortuna. Molta meno eco ricevette invece la replica di Federico Pastorello, l’agente di Lukaku, che spiegò che quella storia era del tutto falsa e che il giocatore semplicemente non aveva più fiducia nel progetto dell’Everton: Moshiri si era inventato la storia del voodoo per allontanare da sé la responsabilità dell’addio dell’attaccante.
Ma quanti altri casi si potrebbero citare? Quello di Paul Pogba, per esempio, che avrebbe pagato uno stregone per fare il malocchio a Mbappé, suo compagno di nazionale. Un’altra storia che la stampa ha fatto circolare senza pensarci su troppo, nonostante la sua evidente assurdità: l’accusa era stata lanciata da Mathias Pogba, fratello maggiore del calciatore e, come si è poi scoperto, suo ricattatore. A un’analisi più approfondita, si scopriva che lo “stregone” era in realtà un marabutto, che alcune testate hanno banalmente descritto come un “santone africano”, e che invece è una comunissima figura religiosa dell’Islam africano. Come poi chiarito dallo stesso Pogba, il giocatore aveva effettivamente telefonato al marabutto, ma per fare una donazione a un’associazione che aiuta i bambini poveri in Africa. Eppure sembrava così logico che il calciatore africano (Pogba è nato e cresciuto nelle periferie di Parigi, in realtà) potesse rivolgersi a uno stregone per risolvere i suoi problemi di carriera.
Se certe fantasie coloniali, figlie dei racconti dei viaggiatori ottocenteschi, faticano giustamente a trovare spazio nell’informazione legata all’attualità politica internazionale, curiosamente trovano terreno molto più fertile in quella sportiva. Ma che il calcio sia ancora ben popolato di riflessi colonialisti e di stereotipi razziali non è certo una sorpresa (pensiamo solo al luogo comune dei giocatori neri che sono tutti forti, atletici e veloci, ma poco tecnici e tatticamente indisciplinati). Basta fare una veloce ricerca online scrivendo “calcio stregone” per venire inondati di notizie più o meno improbabili che parlano di riti assurdi, sempre con il solito tono paternalistico di chi guarda gli africani dall’alto in basso e un po’ anche si compiace di trovare conferma delle proprie convinzioni. Nei giorni scorsi, il sito di Sky Sport ha fatto un elenco dei più famosi casi in cui gli stregoni hanno avuto a che fare col calcio. Lo scorso maggio, numerose testate hanno dato adito alle parole di un ex-agente di Yaya Touré che affermava che Guardiola poteva finalmente tornare a vincere la Champions League, dopo che l’ivoriano aveva fatto rimuovere la maledizione sul tecnico del City (ovviamente, Touré ha definito questa storia una “sciocchezza” che alimenta pericolosi stereotipi). Nel 2015, Fanpage.it parlava di uno studio che confermava che “la maggior parte dei giocatori di origine africana” della Premier League spendeva migliaia di euro in riti magici. Poi, nel testo dell’articolo, non si citava alcuno studio, ma solo dei “gossip” usciti da non si sa bene dove.

Il pallone ha la capacità di far emergere nelle menti degli europei questo immaginario coloniale sull’Africa che in altri ambiti non si pare legittimati a rendere palese. Questo si rivede anche nelle piccole cose, come ad esempio il fatto che qualsiasi allenatore europeo che sia mai andato ad allenare una squadra africana sia stato definito dai media almeno una volta “stregone bianco”. Anche qui basta fare rapidamente un sondaggio su Google per imbattersi, solo nella prima pagina di ricerca, in: Philippe Troussier, Bruno Metsu, Claude Le Roy, Hervé Renard. Non importa neppure se queste persone, dai tifosi e dai media africani, siano state effettivamente soprannominate così: è lo sguardo europeo che finge di ribaltarsi e assumere il loro punto di vista. E nel frattempo banalizza il calcio di quei paesi, secondo il cliché per cui l’allenatore europeo sarebbe sempre visto come una figura in grado di ottenere risultati insperati, a cui le federazioni locali non possono fare a meno di rivolgersi. Agli scorsi Mondiali in Qatar, tutte e cinque le nazionali africane partecipanti avevano allenatori autoctoni. Mentre le asiatiche, con la sola eccezione del Giappone, avevano tecnici europei, ma nessuno ha parlato di “stregoni bianchi”, come nessuno certamente chiamerà così Carlo Ancelotti se davvero dovesse diventare il prossimo allenatore del Brasile.
In questo retaggio di cultura coloniale possiamo indentificare tre meccanismi di pensiero che andrebbero smontati. Il primo è quello di pensare che ogni nero sia fondamentalmente un africano, a prescindere dal luogo in cui è nato e cresciuto e dalla sua storia personale. I casi di Lukaku e Pogba, che sono europei per nascita e per cultura, sono abbastanza emblematici. Da qui discende una seconda considerazione: c’è un enorme pressapochismo quando si parla dell’Africa, che porta a considerare ogni africano perfettamente omogeneo a un altro. Parliamo di un continente di oltre 30 milioni di km² e con più di un miliardo di abitanti: un ragazzo di Lagos – una metropoli piuttosto moderna da oltre 16 milioni di abitanti – non ragiona allo stesso modo di un altro cresciuto in un villaggio dell’entroterra del Mozambico. Chi non ha ben presente tutto questo finisce per pensare che un marabutto sia appunto uno sciamano mezzo nudo con una collana di ossa che agita un bastone e invoca divinità note solo alla sua tribù, seduto su una stuoia in mezzo alla giungla. Le religioni più diffuse nel continente sono l’Islam e il Cristianesimo, mentre pochissimi seguono ancora i culti tradizionali (in compenso, sono presenti comunità ebraiche, buddiste e induiste, e numerosi atei). L’idea che un africano sia quasi certamente seguace di qualche strano culto è quindi poco supportata dai fatti.
La terza considerazione che possiamo fare è che, anche accettando che in alcuni casi i cosiddetti “stregoni” africani possano avere una qualche influenza sui calciatori del continente nero, questo non rappresenta certo una loro esclusiva. L’uso scaramantico della religione è tanto diffuso in Africa quanto nel resto del mondo, compresi il Sudamerica e l’Europa. Maradona scendeva in campo facendosi il segno della croce, Kaká dedicava i gol al Signore alzando le dita e guardando verso il cielo, molti calciatori musulmani rispettano il digiuno del Ramadan, Giroud ha una frase della Bibbia tatuata sul braccio. Come già spiegato in passato, la religione è parte integrante dello sport, e a volte può trasformarsi in scaramanzia. Ma quando Giovanni Trapattoni versava l’acqua santa in campo prima delle partite del Mondiale del 2002 era visto come un gesto divertente, non certo con il paternalistico fastidio che si riserva alle superstizioni africane. Ma si potrebbe fare lo stesso discorso anche per Bobby Moore, che doveva essere sempre l’ultimo della squadra a indossare i pantaloncini; per Valeriy Lobanovskyi, che non voleva avere giocatori con il numero 13; per Raymond Domenech, che si faceva suggerire la formazione dai calcoli astrologici; e per molti altri ancora.
Nel 2023, il pensiero magico è ancora fortemente presente nella nostra società, anche se poco accettato a un livello superficiale, nell’Occidente figlio dell’Illuminismo. Lo sport, però, diventa quell’ambito in cui ricorrervi è ancora concesso, in un equilibrio ambiguo tra il crederci e il non crederci. Probabilmente perché lo sport è il regno del possibile e dell’imponderabile, in cui l’essere umano si sente ancora preda, sia in campo che sugli spalti, di forze misteriose che ne decidono il destino. Eppure solo quando ci sono di mezzo gli africani (o in generale i neri: Renato Sanches è nato e cresciuto a Lisbona, i suoi genitori provengono da São Tomé e Capo Verde, territori il cui processo di europeizzazione è iniziato addirittura nel XV secolo) questo aspetto smette di rappresentare una curiosa nota folkloristica e diventa l’ennesimo riflesso razzista.
Ed è ancora più incredibile considerando che quelle religioni, come il voodoo, che taluni citano sono nate come forma di resistenza all’oppressione coloniale europea. Tra l’altro in America, e non in Africa.
Ti ringrazio poi per l’ultimo paragrafo, dove tocchi un tema importantissimo: l’Occidente infatti, col suo insopportabile senso di superiorità, crede di aver espulso l’irrazionale dalla sua società e che, anzi, sia questo ad averlo portato a dominare sul mondo. Ma non ci possiamo liberare dell’irrazionale, l’irrazionale da parte dell’umanità: e, più cerchiamo di sopprimerlo, più viene fuori nei modi più inaspettati.
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