C’è qualcosa di incredibilmete fotogenico, in Claudio Galimberti, più comunemente noto come il “Bocia”, l’ultras più conosciuto e discusso della storia italiana. Paradossale, se pensiamo che la sua fama se l’è conquistata tutta sul campo, non certo grazie ai media. In un’epoca in cui il calcio entrava nel business neoliberista e nella sua fase iper-mediatizzata, lui è riuscito a guadagnarsi l’ostinata fama del ribelle proprio là in quel luogo attorno al quale sembra ruotare tutta la sua esistenza, lo stadio di Bergamo. A guardia di una fede, il documentario di Andrea Zambelli presentato negli scorsi giorni, non è però una biografia di Galimberti, ma uno spaccato del tifo dell’Atalanta nella sua epoca d’oro. Una storia di tifosi, città e polizia che diventa emblematica non solo per il suo eccezionale centro di gravità – il Bocia, appunto – ma anche perché in questi anni, i suoi anni, Bergamo e l’Atalanta sono divenute protagoniste della cronaca, nel bene e nel male.
Torniamo un attimo indietro al 2020. Quell’anno uscì, in piena pandemia e direttamente su Netflix, il film di Francesco Lettieri Ultras, unanimemente condannato dai frequentatori delle curve italiane con l’accusa di offrire una visione stereotipata del fenomeno ultras. Il problema del film era sostenzialmente quella di dipingere questi tifosi con tratti non molto dissimili da una gang cammorrista: lo scontro e la violenza, la lotta per il potere all’interno del gruppo, occupano per i protagonisti molto più spazio del loro legame con il Napoli. A guardia di una fede ha, rispetto a Ultras, l’indubbio vantaggio di essere un documentario e quindi ha il compito di riportare e contestualizzare testimonianze reali, non di usarle per costruire una trama organica di finzione. La dialettica dello scontro non manca, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti, ma la squadra è sempre al centro di tutto: gli ultras come truppe di supporto, talvolta di avanguardia, di quella guerra simulata che è sempre una partita di calcio.
Quella del Bocia è la storia di un ragazzino che forse nasce e sicuramente cresce nella curva, e che una volta adulto lotta per riformare la tifoseria e allargarne i confini. Il suo piano per aprirsi agli altri gruppi, organizzarsi e conquistare i favori degli altri tifosi, è sostanzialmente un progetto politico: la costruzione di una comunità immaginata attraverso il calcio (parafrasando un poco Hobsbawm), in cui la curva va a fare da trait d’union tra la squadra e la città. In un’epoca di tifoserie divise, è un Gengis Khan che cerca di riunire le varie tribù del tifo atalantino per creare il proprio impero. E in un certo senso ci è riuscito, perché la Curva Nord bergamasca è diventata una delle più organizzate d’Italia, capace di convogliare un numero di persone impressionante non solo allo stadio, ma anche alle proprie feste, trasformandosi in un vero e proprio fenomeno sociale. È ancora più straordinario il fatto che tutto ciò sia avvenuto in un piccolo club di provincia abituato a fare su e giù tra la Serie A e la Serie B. C’è un qualcosa di poetico, nella scena che lo vede nel camminamento sopra il casello autostradale, mentre teorizza il modo in cui la sua squadra-città deve presentarsi agli ospiti che si affacciano alle sue porte.
Da questo punto di vista, A guardia di una fede potrebbe quasi fare il verso al Macbeth: la storia di un sogno, della sua costruzione e, per certi versi, della sua caduta (o almeno della caduta del suo re: la curva atalantina esiste e resiste tutt’oggi). Ma il film di Andrea Zambelli sceglie un’altra strada, e non indugia troppo sul poema epico del Bocia, cercando invece di rappresentare una storia più complessa. Il punto di partenza è ovviamente l’immagine popolare di Claudio Galimberti presso tutti gli appassionati di calcio non-ultras d’Italia: l’archetipo del tifoso violento, del facinoroso, di colui che va allo stadio per fare casino e rovinare lo spettacolo alla brava gente che vorrebbe soltanto assistere a un evento sportivo. Andare oltre questo stereotipo è l’obiettivo del film, il suo proposito più ambizioso ma che non viene del tutto raggiunto: l’impressione è che manchi sempre un anello di congiunzione per spiegare l’ultras e la sua mentalità a chi ultras non è; ma questo è forse uno scoglio che nessun prodotto, editoriale o audiovisivo, potrà mai scavalcare.

Tuttavia, alcuni indizi si trovano, sparpagliati qua e là. L’ultras come sfogo del ribellismo sociale in un’epoca in cui ormai l’aggregazione politica “di movimento” sta venendo meno. L’ultras come attore di un senso di comunità e di identità con la città stessa, e come vedremo più avanti Bergamo è centrale in questo film. Questo senso di comunità si ritrova di frequente nel documentario: basta pensare alle numerose iniziative benefiche che i tifosi nerazzurri mettono in piedi, facendo emergere con forza un’anima sociale che raramente chi segue il calcio ma non questo suo microcosmo conosce a dovere. Come si concilia il Bocia che racconta allegramente della sua ricerca dello scontro con le tifoserie rivali con quello che raccoglie fondi per i terremotati dell’Aquila? Semplicemente non si concilia, non secondo le stringenti regole della narrazione classica, perché appunto non ci troviamo di fronte a un personaggio ma a una persona in carne e ossa, che come tutte le altre risponde a una logica propria di cui è l’unico giudice possibile.
La storia del Bocia non sarebbe probabilmente stata la stessa se fosse nato in un’altra città. In A guardia di una fede, Bergamo è importante tanto quanto il suo più celebre tifoso, e questo è il principale pregio del film: se da un lato il Bocia rivendica ripetutamente il legame tra tifo, squadra e città, dall’altro il documentario sposa in pieno la sua filosofia e racconta la vicenda come se fossero un tutt’uno. Si è detto che il Bocia è un figlio della curva, ma è anche un figlio di una città industriale in rapidissima espansione, che negli anni Settanta ha un hinterland che supera i 400.000 abitanti e vede anche sorgere un proprio aeroporto civile. È sempre meno città di provincia e sempre più “grande città”, con periferie popolari che crescono a vista d’occhio. È in questo ambiente che si forgia il nuovo pubblico dell’Atleti Azzurri d’Italia, e l’Atalanta sembra gradualmente adeguarsi alle ambizioni dei suoi fan. La crescita del club va quasi di pari passo con quella della città: a partire dalla promozione del 1988, stesso anno in cui raggiunge una incredibile semifinale di Coppa delle Coppe pur giocando tra i cadetti, l’Atalanta è quasi sempre in Serie A. Retrocede cinque volte, ma ritorna subito su la stagione dopo (tranne per la risalita del 2000, che richiese due stagioni), e poi dal 2011 è presenza fissa nella massima serie.
È la Bergamo che nel 1976 vede nascere il Lab80, un gioiellino del settore cinematografico italiano che è anche produttore di questo film, e nel 1983 il Bergamo Film Meeting, uno dei principali festival in Italia. La Bergamo che nel 2017 vede le sue caratteristiche mura veneziane diventare patrimonio dell’UNESCO, e che poi ospita un vertice del G7 dedicato all’agricoltura. La stessa zona che tra il 2010 e il 2011 era stata scossa dallo shockante caso del rapimento e omicidio di Yara Gambirasio, e che nel 2020 diventerà la città simbolo della tragedia della pandemia del Covid-19. Mentre il virus si diffonde, l’Atalanta vive l’apice della sua storia, giocando stabilmente nelle coppe europee e sfiorando anche una clamorosa semifinale di Champions League. Ovvio che tutto questo non dipende da Claudio Galimberti, ma è innegabile come le sue aspirazioni abbiano accompagnato, forse anche anticipato, l’affermazione di Bergamo e dell’Atalanta come protagoniste a livello nazionale e internazionale. Raccontare la sua storia non è quindi solo raccontare la storia di un tifoso carismatico, ma prima di tutto un momento perfetto nella storia di una provincia che riesce a conquistarsi la sua straordinaria ribalta.
L’ultras, la città, e infine il mondo contro, il terzo grande tema di A guardia di una fede, quello che conduce fino all’immagine conclusiva di un Cristo crocifisso che ha proprio volto del Bocia. Gli anni della sua ascesa a capo della Curva Nord bergamasca sono anche gli inizi della crescita delle tensioni tra il tifo organizzato e le forze dell’ordine, un emblema involontario del fallimento della pacificazione sociale seguita alla fine della Guerra Fredda. Sono gli anni della fase neoliberista del calcio, sempre più spettacolo globale e soprattutto televisivo, in cui i tifosi allo stadio sono visti come un’appendice utile solo nel momento in cui contribuiscono ordinatamente a caratterizzare l’evento. Si arriva così alla repressione, ai DASPO e alle tessere del tifoso, in quegli anni Duemila in cui il calcio in Italia si deve confrontare molto spesso con la morte, quella di Gabriele Sandri e quella di Filippo Raciti. Alla fine, è per questo che è conosciuto il Bocia: l’ultras più bersagliato dalla giustizia, il più discusso e il più punito, che da un lato diventa il simbolo di tutto ciò che va male nel calcio italiano e dall’altro il capro espiatorio di un grande rito purificatorio collettivo. È stato un nome storico del giornalismo sportivo italiano, Xavier Jacobelli, a scrivere nel 2015 che a Bergamo, nonostante i problemi di furti, rapine e spaccio di droga, l’occupazione principale della Questura era “stangare sempre e comunque il Bocia”.

A guardia di una fede si trova a maneggiare una materia rara, una storia che ne contiene molte altre addirittura più grandi, eppure a loro agio tutte insieme nel corpo di un 50enne che sembra essere nato per fare l’alfiere o il parafulmine. Ma si trova anche a maneggiare una mole di documenti visivi raccolti nel corso di anni con una meticolosità e una precisione davvero impressionanti, che ci portano costantemente al centro di un mondo che cambia. La telecamera è stata al suo fianco lungo tutta la sua storia di leader della Curva Nord, e questo permette al film di raccontare realmente una vicenda nel suo svolgersi e non più banalmente ricostruirla a posteriori. La sensazione è quella di essere lì, in quel momento. Arrivati alla fine, un buon esercizio critico sarebbe domandarsi se il Bocia sia stato davvero il protagonista di questa storia o piuttosto il suo testimone più diretto (e noi, accanto a lui attraverso l’occhio della macchina da presa, siamo co-testimoni), perché si parla sì di lui ma anche di tutto quello che gli sta attorno, e che sotto molti aspetti è sopravvissuto ai suoi esili, l’ultimo dei quali volontario. Gli appassionati della sottocultura ultras troveranno sicuramente di che alimentarsi nel seguire l’epopea del Bocia, mentre chi è meno interessato a questi aspetti avrà modo di riflettere sul particolare concetto di comunità che pervade i tifosi. Su tutto questo, aleggia infine il crepuscolo di un’epoca, che forse a molti era sfuggita e che adesso, almeno in parte, potrebbe essere riscoperta.