Lo si era anticipato già la scorsa settimana: gli eventi del 7 ottobre hanno generato una storica spaccatura nel calcio “di sinistra” europeo, compromettendo forse per sempre la reputazione del St. Pauli di Amburgo. Nell’ultima settimana, alcuni fan club stranieri della società tedesca, come quello di Bilbao e quello di Atene, hanno annunciato il proprio scioglimento, per prendere le distanze dalle posizioni del club e dei tifosi tedeschi sul conflitto israelo-palestinese. Il rapporto tra gli ultras di Germania e il resto del tifo straniero non potrà più essere lo stesso. Tuttavia, in questi giorni si sono letti dei giudizi completamente ingiusti e fuori dalla realtà verso i tifosi tedeschi e verso il St. Pauli in particolare, per cui diventa necessario fare una riflessione e fermare alcuni punti in questo discorso.
La posizione del tifo in Germania sul conflitto israelo-palestinese è senza dubbio ambigua e per molti versi non condivisibile, almeno per la sinistra occidentale. Nessuno di loro si è schierato apertamente per la causa palestinese, e molti gruppi si sono posizionati molto più vicino a quella israeliana (anche se parlare di posizioni sioniste o di legittimazioni di Netanyahu e delle sue operazioni militari in Palestina è esagerato). Le critiche, su questo punto, sono ovviamente legittime, ma tenendo sempre presente che i tifosi tedeschi sono i più socialmente responsabili e schierati al mondo: da anni prendono posizione, e spesso agiscono anche concretamente, su diverse cause sociali sia a livello locale che internazionale. Le loro opinioni sul conflitto in Medio Oriente non possono cancellare né minimizzare tutto questo, soprattutto non nel momento in cui, per contro, si esaltano tifoserie che si sono schierate per la Palestina in questi giorni ma magari da anni non hanno mai preso una posizione politica che sia una, nemmeno per contestare i Mondiali della Vergogna in Qatar. Per cui, fermo restando la critica sulla questione palestinese, il ruolo politico dei tifosi di Germania non può essere sminuito.
Il St. Pauli, nello specifico, è stato accusato dai fan club stranieri per un suo comunicato del 7 ottobre, in cui ha condannato l’attacco di Hamas contro i civili israeliani e dichiarato solidarietà all’Hapoel Tel Aviv, club con cui ha una forte amicizia (l’Hapoel è la squadra con la tifoseria più sinistra e antirazzista in Israele, che di certo non può essere accostata alle violenze verso la popolazione araba: altra cosa da tenere presente) e che ha avuto alcuni tifosi tra le vittime dell’attacco. Per i fan club stranieri, la colpa del St. Pauli è stata quella di essere intervenuto pubblicamente solo ora, dopo l’attacco di Hamas, e di aver taciuto in passato, quando era Israele il primo ad aggredire. Questa contestazione è assolutamente legittima, ma fino a questo momento la situazione era nei ranghi di un confronto abbastanza civile. Solo in seguito è sfuggita di mano, quando sono iniziate a volare accuse molto pesanti, che hanno portato i tifosi tedeschi a chiedere alla società di rivedere la status di affiliazione dei gruppi di fan all’estero e successivamente li hanno accusati di antisemitismo con uno striscione. A questo episodio, i Bhoys del Celtic hanno risposto con un altro striscione che recitava “Fuck St. Pauli!” e che chiamava “hipster” i tifosi tedeschi.
Stabilire chi abbia la colpa di aver alzato i toni e portato a questa clamorosa spaccatura ha poco senso. Un’analisi più equilibrata e seria di quanto accaduto dovrebbe invece partire da altrove, ad esempio dal fatto che tutti da anni sapevano che il tifo tedesco, e quello degli amburghesi non fa eccezione, è molto cauto nello schierarsi contro Israele o a favore dei palestinesi. Chi magari segue meno queste dinamiche è convinto (e ne ho avuto la riprova nei molti commenti letti sui social di Pallonate in Faccia in queste settimane) che la tendenza dei tedeschi sia stata improvvisamente scoperta nell’ultimo mese, ma non è affatto così. Perché solo adesso questa situazione è degenerata in uno scontro aperto? Una risposta non ce l’ho, ma l’impressione è che gli eventi del 7 ottobre e ciò che li ha seguiti abbiano creato il momento ideale per regolare in piazza dei conti che nel privato ci si trascinava dietro da tempo, in particolare tra Glasgow e Amburgo. Mi rendo conto che sia molto difficile sottrarsi all’impulso di scegliere una parte per cui tifare anche in questo conflitto, ma considerata la mia personale impressione preferisco astenermi dallo schierarmi in questa “gara di radicalità” (cito ancora Zerocalcare) tra tifosi di calcio.

E allora, direte voi, perché questo articolo s’intitola “Dalla parte del St. Pauli”, se non intendo prendere posizione per l’uno o per l’altro? Perché in questi giorni si è letto di tutto, compresa molta gente che sui social ha sconfessato il club tedesco, mettendone in discussione la sua reale identità di sinistra e la sua storia, riducendolo a un fenomeno di moda e marketing che sfrutta la politica per vendere magliette. Ecco, questa idea non è solo ingenerosa, ma semplicemente falsa, e motivata unicamente dall’impulso cieco di “distruggere il mito” contro cui ci si è rivoltati ora. Siccome sulla Palestina gli amburghesi non la pensano come noi, allora dobbiamo convincerci che non la pensano come noi su qualunque cosa, perché così è più facile vederli come nemici, invece di riflettere sul fatto che esiste un’evidente spaccatura culturale, su questo tema, tra la sinistra tedesca (o almeno parte di essa) e quella straniera.
I motivi di questa differenza culturale dovrebbero essere facilmente evidenti a chiunque. Secondo alcuni, il problema principale è una incorretta elaborazione dell’Olocausto da parte dei tedeschi, e in una qualche misura questo è probabilmente vero. Anche se andrebbe chiarito chi è che sia riuscito a elaborare correttamente le tragedie della Seconda Guerra Mondiale: quanta gente di sinistra, anche in Italia, abbiamo visto andare dietro a criminali fascisti come Putin e Assad, in questi anni? Quanti hanno finito per abbracciare le teorie del complotto sul banchiere ebreo George Soros, che altro non sono che una riedizione di vecchie paranoie naziste e antisemite? Tra le persone che sui social di Pallonate in Faccia hanno commentato lo scontro interno al St. Pauli, una ha linkato un post in cui si accusava proprio il club amburghese di essere un fenomeno di marketing senza contenuti politici. L’autore del post è Roberto Vallepiano, un personaggio che già nel 2018 veniva segnalato su Giap per le sue “controverse” tendenze politiche: di sinistra, ma contro l’immigrazione, le ong che salvano i migranti nel Mediterraneo, le proteste femministe, i diritti LGBTQ+, e ovviamente convinto sostenitore delle teorie cospirazioniste su Soros. Un esponente di quella che Mauro Vanetti chiama giustamente “la sinistra di destra”, e che un tempo era generalmente chiamato “rossobrunismo”. Non stupisce che un simile personaggio veda di traverso il St. Pauli, e di certo non solo per la questione palestinese.
Dopo di che, la questione tedesca va anche compresa adeguatamente (che è una cosa diversa dal giustificare o dall’approvare, ma è la base per un qualsiasi dibattito civile) per evitare di incorrere di banalizzazioni. Chiamare “antisemiti” coloro che criticano Israele è chiaramente un errore e una semplificazione stupida, ma non cadiamo nella trappola opposta, ovvera quella di ignorare che esista un crescente problema di antisemitismo in Europa, e che il conflitto in Medio Oriente sia strumentalizzato dagli antisemiti per fare propaganda alle proprie idee. Le organizzazioni che lottano contro le discriminazioni segnalano da anni una recrudescenza del fenomeno in vari paesi europei, compresa l’Italia. E dal 7 ottobre a oggi in Germania questi episodi sono aumentati notevolmente: a Berlino, alcune case in cui vivono ebrei sono state segnate all’esterno con delle stelle di David, giusto per fare un esempio. Affrontare la questione del St. Pauli e della Palestina è impossibile se non teniamo conto della realtà di un paese in cui da anni questi episodi sono in crescita, in cui AfD (83 seggi al Bundestag, per capirci) ha esponenti che ballano sui monumenti dedicati alla memoria della Shoah e che si lamentano del fatto che i tedeschi si debbano sentire in colpa per i crimini del Nazismo.
In un simile contesto, dovrebbe essere chiaro che la percezione dei discorsi che riguardano Israele sia diversa rispetto ad altri paesi. Questo – è bene ribadirlo – non legittima i tifosi del St. Pauli a considerare antisemita chiunque condanni le politiche israeliane in Palestina, ma aiuta a mettere le cose in un’altra prospettiva. Una dalla quale dovremmo renderci conto che rispondere chiamandoli “sionisti” è tanto banalizzante quanto l’accusa di antisemitismo fatta dagli ultras tedeschi a chi non la pensa come loro. Se sono queste semplificazioni a darci fastidio, una buona pratica sarebbe quella di iniziare a evitarle noi per primi. Ogni popolazione e ogni individuo ha, purtroppo, le proprie contraddizioni e i propri rimossi, e noi in Italia dovremmo saperlo bene. Cercare di comprendersi e di confrontarsi, specialmente quando si condivide una base ideologica comune, dovrebbe essere il modo di agire privilegiato: l’alternativa, come si vede in Medio Oriente ma non solo, è la guerra. Non parliamo più di calcio, a questo punto, ma di rapporti umani e, su più ampia scala, politici.

In definitiva, perché stare dalla parte del St. Pauli anche dopo tutta questa vicenda? Semplicemente perché, per molte altre cause importanti i tifosi di Amburgo ci sono stati e si sono impegnati in prima persona. Nel 2021 raccolsero oltre 50.000 euro di donazioni per aiutare i senzatetto della loro città, hanno organizzato e partecipato a manifestazioni antifasciste, in supporto ai migranti e alle comunità discriminate. Hanno avuto la forza e il coraggio di riconsiderare la loro storia e di prendere le distanze dai passati legami del club con il Nazismo: quante altre società sono state in grado di fare altrettanto? Negli scorsi giorni, il club e i suoi sostenitori hanno messo in piedi una raccolta fondi per degli aiuti umanitari da destinare alla popolazione di Gaza: uno striscione in uno stadio o uno schieramento di bandiere palestinesi conta più degli aiuti umanitari? Non è questione di stilare gerarchie delle cause o degli atti politici, ma di chiedersi se davvero abbia senso buttare tutto nella pattumiera per una sola posizione non condivisibile. Tra i commenti ricevuti sui social, qualcuno è arrivato ad augurarsi il fallimento del St. Pauli: ebbene, mi pare che in questa polemica si sia andati decisamente oltre. Se il St. Pauli, con tutta la sua storia e il suo presente, diventa il nemico, allora forse si è imboccata una strada sbagliata.
Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.
2 pensieri riguardo “Dalla parte del St. Pauli”