Al 42° minuto, Pak Doo-ik cambiava la storia del calcio. Il gol dell’attaccante coreano gelò l’Italia e consentì alla Corea del Nord di ottenere la prima vittoria di una nazionale asiatica ai Mondiali, e anche la prima qualificazione alla fase a eliminazione diretta nella storia delle selezioni orientali. È una vicenda che in molti conoscono, soprattutto in Italia, così come si sa che, al turno successivo, i coreani sfiorarono l’impresa storica di raggiungere la semifinale, andando sul 3-0 dopo mezzora contro il Portogallo, per poi venire ribaltati dal ciclone Eusébio. L’impresa asiatica non fu però uno shock solo in Italia, ma anche dall’altra parte del mondo, al di sotto del 38° parallelo, dove Pyongyang era il nemico e quell’exploit era uno smacco al proprio onore che il governo di Seul non poteva tollerare.
Non poteva essere diversamente, in un paese dominato dall’autoritarismo nazionalista del generale Park Chung-hee. Nel 1961 era stato lui a guidare il colpo di stato militare che aveva posto fine, dopo un anno soltanto, alla Seconda Repubblica nata dalle proteste studentesche e operaie. La sua giunta aveva promesso un ritorno a libere elezioni per il 1963, assicurando che nessun generale avrebbe provato a candidarsi, e invece proprio Park si era presentato al voto, riuscendo non senza polemiche a farsi eleggere Presidente. Sotto la parvenza della democrazia, il generale aveva imposto un governo autoritario e repressivo, ma aveva anche saputo ottenere i favori del mondo occidentale grazie a importanti riforme industriali ed economiche. Tuttavia, i rapporti con il Nord comunista non erano mai stati riprestinati, e a quasi dieci anni dalla fine della Guerra di Corea non era ancora stato firmato un trattato di pace. Anzi, i due paesi parevano più che mai sull’orlo di un nuovo conflitto aperto.
Dopo un fugace riavvicinamento, nell’ottobre del 1964 i rapporti tra le due Coree erano nuovamente precipitati, a causa della massiccia infiltrazione di spie comuniste nel Sud per operazioni di propaganda. Questo aveva fatto crescere le tensioni, e per le strade di Seul si verificavano di frequente scontri tra gli agenti del Nord e le forse di sicurezza del Sud. Il grande successo della nazionale nordcoreana ai Mondiali inglesi del 1966 rappresentò un altro brutto colpo per la reputazione di Seul e del suo regime, in cui il calcio aveva da decenni un valore sociale altissimo. E tuttavia non sorprendeva nessuno che il Nord avesse una squadra più forte e competitiva di quella dei nemici meridionali: già sotto la dominazione giapponese, i giocatori di Pyongyang si erano messi in mostra come i migliori della Penisola, come dimostrava il talento di Kim Yong-sik, la mezzala che fu addirittura una delle stelle della selezione nipponica alle Olimpiadi del 1936. Ma anche l’ossatura della squadra sudcoreana che prese parte ai Mondiali del 1954 e che poi conquistò la Coppa d’Asia nel 1956 e nel 1960 era composta da giocatori del Nord fuggiti dal comunismo durante la guerra, come l’attaccante Choi Chung-min.
Nonostante fosse stata la sede del potere imperiale sotto la dinastia Joseon, e nonostante tutto il suo orgoglio e l’economia in crescita, la Corea del Sud restava subalterna al Nord nello sport più amato dalla popolazione locale. Dopo i Mondiali del 1966, il leader comunista Kim Il-sung aveva tenuto un discorso belligerante, il 5 ottobre, mettendo in discussione l’armistizio del 1953, e pochi giorni dopo ricominciarono gli scontri nella zona demilitarizzata che si frapponeva tra i due confini: iniziava quella che molti giornalisti internazionali chiamarono subito la Seconda Guerra di Corea. In uno scenario del genere, è sorprendente che Park avesse deciso di destinare una sezione speciale della KCIA, l’agenzia di spionaggio governativa, al preciso scopo di combattere il successo nordcoreano nel calcio. Questo progetto era iniziato addirittura prima della nuova guerra, quando un agente era stato inviato in Inghilterra a seguire i Mondiali spacciandosi per giornalista. L’agente in questione contattò membri della stampa e dirigenti sportivi per ottenere informazioni sui motivi della forza dei nemici del Nord, e quando era rientrato a Seul aveva spiegato ai suoi superiori che, secondo gli esperti, la Corea del Sud mancava di un serio programma di sviluppo del calcio giovanile.
Queste informazioni furono portate direttamente sul tavolo di Kim Hyong-uk, il 41enne direttore della KCIA. Nato nel Nord, Kim aveva studiato al Sud e combattuto contro i comunisti nella guerra del 1950-53, dopo la quale era stato mandato negli Stati Uniti per ricevere un addestramento speciale, e successivamente era stato tra gli ufficiali del colpo di stato del 1961. Aveva poi rivestito la carica di Ministro degli Interni, prima di venire messo a capo dell’intelligence. Fu sua l’idea di controbattere allo strapotere nordcoreano nel calcio creando una squadra “di stato” sul modello di quelle comuniste, in cui spettasse ai servizi segreti stabilire con precisione metodi di allenamento e sistema di gioco. Nel 1967 vide quindi la luce il Yangzee FC, un club controllato direttamente dalla KCIA e con un severo regime di allenamento che nessun’altra formazione nella Corea del Sud poteva vantare. Essendo la squadra del Ministero degli Interni, i giocatori che ne facevano parte non venivano acquistati dalle rivali, ma direttamente reclutati attraverso il servizio militare, obbligatorio per tutti i maschi del paese. La diretta conseguenza fu che lo Yangzee poteva annoverare nelle sue fila il meglio del calcio sudcoreano, e pagare anche stipendi molto alti, dato che i suoi giocatori erano formalmente dilettanti inquadrati come agenti nei servizi segreti.
La gestione della squadra fu affidata un uomo di fiducia, quel Choi Chung-min che era stato una stella della nazionale negli anni Cinquanta e che a sua volta aveva poi lavorato nella KCIA. Formatosi al Nord prima della guerra del 1950-53, Choi conosceva bene l’approccio molto tecnico e offensivo evolutosi dal WM inglese che caratterizzava tutto il calcio di Pyongyang, e che ai Mondiali aveva sorpreso l’Italia. Lo Yangzee poteva quindi permettersi di reclutare i migliori giovani calciatori del paese, selezionati da un allenatore esperto e inseriti in un sistema sportivo rigorosamente organizzato, ponendosi come una via di mezzo tra una squadra di calcio statale e un’accademia calcistica nazionale. I giocatori erano tenuti a vivere all’interno di alloggi messi a disposizione della KCIA e allenarsi nel centro sportivo dell’agenzia: la sveglia era alle 6.00, e gli esercizi andavano avanti fino al calar del sole, con una sola pausa per il pranzo. Il governo aveva investito una grossa quantità di denaro per dotare il centro d’allenamento di strutture all’avanguardia, e alla squadra era consentito di giocare presso l’impianto di Imun-dong, l’unico campo in erba di tutta la Corea del Sud.
I risultati furono immediatamente positivi. Trascinato da giocatori come il portiere Lee Se-yeon, il libero Kim Jung-nam, e gli attaccanti Huh Yoon-jung e Lee Hoe-taik, lo Yangzee conquistò già nel 1967 il suo primo trofeo internazionale, vincendo la Coppa Merdeka, un prestigioso torneo che si disputatava in Malesia dal 1957, e a cui fino a quel momento erano state ammesse solo selezioni nazionali. L’anno seguente, la squadra dei servizi segreti sudcoreani si confermò in patria, vincendo lo scudetto e la Coppa del Presidente. Tuttavia, gli alti standard a cui erano abituati e il ruolo privilegiato che rivestivano sotto il regime alimentava anche l’ego dei suoi giocatori, che spesso finivano per scontarsi tra loro negli spogliatoi. Per riportare l’ordine nella squadra, che doveva essere da esempio al paese, Choi Chung-min venne sostituito in panchina da un’altra leggenda come Kim Yong-sik, che aveva fama di sergente di ferro e che era stato colui che aveva guidato la nazionale ai Mondiali del 1954.
Il cambio in panchina non interruppe la crescita tecnica dello Yangzee, che nel gennaio del 1969 stupì tutta l’Asia al Campionato per Club della AFC, l’antesignano della Champions League asiatica. I sudcoreani prevalsero in un girone che comprendeva anche gli indiani del Mysore State, i thailandesi del Bangkok Bank, i vietnamiti del Vietnam Police e i filippini del Manila Lions: 4 vittorie su 4, 17 gol fatti e solo 1 subito. In semifinale, lo Yangzee eliminò 2-0 i giapponesi del Toyo Kogyo, per poi arrendersi in finale, solamente ai tempi supplemenatari, al Maccabi Tel Aviv. Per la prima volta, una formazione coreana era arrivata alla finale continentale. Questo eccellente risultato fece da rampa di lancio per l’ambiziosa tournée della squadra in Europa, che la portò a disputare 26 partite, riportato un entusiasmante record di 18 vittorie, 2 pareggi e 6 sconfitte. La formazione asiatica incontrò principalmente squadre di secondo piano del calcio europeo, spesso non professionistiche, ma durante il suo passaggio dalla Francia riuscì, grazie all’intercessione dell’ambasciata a Parigi, a organizzare un incontro con il Metz, che all’epoca militava nella prima divisione transalpina.

In pochi anni, il regime sudcoreano era riuscito a costruire da zero una squadra capace di imporsi tra le principali forze del calcio nazionale e asiatico, e dare finalmente la speranza di poter infrangere la superiorità tecnica del Nord. Ma incidentalmente i successi internazionali della squadra si erano anche trasformati in una vetrina per il regime di Park Chung-hee, che poteva sfruttare il calcio per mostrare al mondo i rapidi progressi della Corea del Sud. Mentre questo accadeva, la guerra era andata avanti, e nel gennaio del 1968 un commando di sicari comunisti infiltrati dal Nord era stato fermato appena prima di poter attentare alla vita del Presidente. Questo incidente aveva reso Park sempre più paranoico, ma aveva anche messo in discussione l’operato dei servizi segreti. Quando, nel 1970, Kim Hyong-uk decise di non appoggiare la sua rielezione a un terzo mandato, il Presidente lo rimosse da direttore della KCIA. Questa mossa privò lo Yangzee del suo principale sostenitore, e propiziò l’improvviso scioglimento della squadra, ufficializzato il 17 marzo dello stesso anno.
La breve esperienza della squadra dei servizi segreti aveva però posto le basi per qualcosa destinato a durare. Lo Yangzee aveva rivoluzionato l’approccio sudcoreano al calcio, non solo addestrato una generazione di calciatori tecnicamente e tatticamente più preparati, ma anche alzato gli standard degli allenamenti e degli investimenti nel settore. Da quel momento in avanti, la Federcalcio iniziò a spendere grosse cifre per mantenere alto il livello del calcio locale, anche invitando importanti club internazionali a giocare a Seul, a partire dal Benfica, che pareggio 1-1 con la selezione della Corea del Sud nel settembre 1970. Portare Eusébio e compagni in Asia era costato ben 45.000 dollari, ma ne era valsa la pena: la propanda sudcoreana poté mettere in evidenza come la nazionale avesse fermato sul pareggio la squadra che rappresentava l’ossatura di quel Portogallo che quattro anni prima aveva sconfitto la Corea del Nord. Nel 1972, la selezione del Sud tornava in finale della Coppa d’Asia per la prima volta dal 1960, arrendendosi 2-1 contro l’Iran, ma la strada per diventare una potenza del calcio asiatico era ormai aperta.
Fonti
–How Yangzee FC took South Korean football to the next level, FIFA.com
-LEE Jong-sung, A History of Football in North and South Korea c.1910-2002, Peter Lang
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