1979, il primo sciopero del calcio spagnolo

“Suspendido” scandisce più volte, come un mantra, la voce iconica di José María García ai microfoni di Cadena SER. È la giornata di campionato più surreale nei settant’anni di storia della Liga: nessuno ha giocato, nessuno è sceso in campo. La Spagna è stranita e in subbuglio, i media si dividono tra il condannare e l’approvare quanto sta succedendo. È il 4 marzo 1979, e la giovane democrazia iberica sta affrontando una serie di sfide che potrebbero segnarne il futuro: tre giorni prima i cittadini si sono recati a votare per la prima volta con la nuova Costituzione, dopo quarant’anni di dittatura. E adesso, il paese si trova di fronte anche a qualcosa che nessuno si poteva aspettare: il primo sciopero del calcio.

Francisco Franco non c’è più. È morto, all’età di 82 anni, alla fine di novembre del 1975. Il regime si è sciolto, e il Re Juan Carlos di Borbone ha deciso che era venuto il momento di tornare a un governo democratico. Pochi mesi dopo, viste le titubanze del governo di transizione – ancora in mano ai franchisti – nel portare avanti riforme significative, sono iniziati gli scioperi dei lavoratori. A marzo, migliaia di manifestanti hanno bloccato Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi, chiedendo stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro, e per tutta risposta sono stati violentemente repressi dalle forze dell’ordine, che hanno causato anche quattro morti. In un clima tesissimo, in cui emerge con forza il problema del terrorismo politico, nel 1977 si sono tenute le prime elezioni dal 1936, vinte dall’Unión de Centro Democrático di Adolfo Suárez, che nel giro di un anno ha portato all’approvazione della nuova Costituzione, fissando le prime elezioni con il nuovo sistema democratico per il 1° marzo 1979. Dove non sembra essere cambiato nulla è invece il campionato di calcio, che in questi anni è saldamente nelle mani del Real Madrid. I Blancos si sono lasciati alle spalle Barcellona, Athletic Bilbao e Atlético Madrid, l’unica avversaria capace di strappare loro il titolo nazionale nella seconda metà degli anni Settanta.

Il calcio è al centro di tutto, in Spagna. Lo è stato negli anni del Franchismo, simboleggiato proprio dal Real Madrid presieduto da un falangista, quel Santiago Bernabéu che ironicamente è deceduto proprio pochi mesi prima dell’approvazione della nuova Costituzione, pietra tombale su quel regime per cui aveva letteralmente combattuto durante la Guerra Civile. Lo sarà ancora oggi, nella nuova Spagna democratica, che tredici anni fa ha ricevuto dalla FIFA l’incarico di organizzare per la prima volta i Mondiali di calcio, fissati per il 1982. Sarebbe dovuto essere un evento per celebrare la dittatura, e adesso sarà invece la festa di una democrazia rinata. Ma come nel resto del paese anche in campo si respira aria di liberazione e cambiamento. Nell’autunno del 1977, nella celebre discoteca Cerebro, il cuore della movida di Madrid, l’ex-portiere dell’Atlético Manuel Esteo e il suo amico Juanito, attaccante del Real, si trovano per caso a discutere delle condizioni di lavoro di molti loro colleghi delle serie inferiori. Alle spalle di un ristretto numero di ricchi calciatori professionisti di fama nazionale sta una massa di giocatori spesso molto giovani che guadagnano poco e non hanno alcun diritto né potere contrattuale sufficiente per farsi valere con le società. Esteo e Juanito sono attenti a ciò che succede attorno a loro, e sanno che in Spagna i lavoratori stanno tornando a protestare e che i sindacati stanno rinascendo, dopo che Franco li aveva messi fuori legge.

Così, nell’improbabile scenario di un’affollata discoteca alla moda, decidono che è giunto il momento che anche i calciatori abbiano la propria associazione di categoria. Juanito, che gioca in nazionale, si fa portavoce del nuovo progetto con i suoi compagni più noti: José Arconada, Juan Asensi, Carles Rexach, Quini, Santillana, Pirri. Sono l’ossatura di una Spagna su cui i tifosi ripongono grandi aspettative, e che nell’estate del 1978 torna a giocare la fase finale di un grande torneo per la prima volta dal 1966. Il 23 novembre 1977, 270 giocatori si riuniscono all’Hotel Meliá per discutere la nascita dell’Asociación de Futbolistas Españoles. Ospite d’onore è l’attaccante dell’Atlético Madrid Rubén Ayala, che porta ai colleghi spagnoli un po’ di documenti e informazioni su come funziona la Futbolistas Argentinos Agremiados, il sindacato argentino fondato addirittura nel 1944. Il 23 gennaio 1978, quando l’AFE nasce ufficialmente, la stampa conservatrice la bolla subito come “il sindacato dei milionari”, ma i quotidiani progressisti come El País e Diario 16 sostengono il progetto. A parlare con i media è soprattutto José Cabrera Bazán, avvocato dell’AFE, ex-attaccante del Siviglia negli anni Cinquanta, professore universitario di diritto e storico membro del Partido Socialista Obrero Español, prima in clandestinità, al tempi del Franchismo, e oggi pubblicamente. È un comunicatore scaltro e acuto, e sa come colpire nel segno: Cabrera Bazán insiste sul fatto che ci sono solo tre categorie di lavoratori, in Spagna, che ancora non hanno un sindacato – i calciatori, le prostitute e le lavoratrici domestiche – e che è giunto il momento che anche loro abbiamo qualcuno che li rappresenti.

Una delle prime assemblee dell’AFE: tra i calciatori presenti al tavolo si notano José Manuel, Villar, Quino e Asensi.

I 270 che si erano riuniti all’Hotel Meliá alla fine del 1977, nel gennaio 1978 sono già diventati 700. I famosi giocatori della Primera División sono quelli che ci mettono la faccia, ma le battaglie sono in favore degli sconosciuti colleghi delle leghe inferiori, che lamentano spesso i mancati pagamenti da parte dei loro club. Nel giro di un anno, l’AFE riesce a costringere diverse società a pagare fino a 130 milioni di pesetas di arretrati ai propri tesserati. Ma ci sono problemi ancora più grandi che il sindacato deve affrontare: il più importante è il derecho de retención, che consente a un club di rinnovare unilaterlamente il contratto di un giocatore grazie a un aumento di stipendio di appena il 10%. Richiedono poi un vero contratto di lavoro collettivo con precisi diritti garantiti, tra cui l’inserimento nella Previdenza Sociale, e la cancellazione del limite minimo d’età nella Tercera División. Su questi punti, i club e la federazione RFEF non hanno intenzione nemmeno di discutere, e dopo una prima minaccia di sciopero nell’autunno del 1978, i calciatori decidono effettivamente di passare all’azione. Lo sciopero viene previsto per il fine settimana del 3 e 4 marzo 1979, pochi giorni dopo le prime elezioni con la nuova Costituzione, che vedranno la riconferma di Adolfo Suárez a capo del governo.

I club esplodono. Accusano i giocatori di essere egoisti o manovrati da qualcuno, piangono miseria dicendo che già tutti i soldi che hanno vanno ai calciatori, alcuni arrivano a chiedere al governo di utilizzare la mano pesante contro gli scioperanti. Pedro Tomás, dirigente dell’Espanyol, dichiara senza mezzi termini che lo sciopero è illegale. “Ogni formazione ha inviato un proprio rappresentante all’assemblea per votare, per cui nulla è stato fatto al di fuori della legge” replica Cabrera Bazán, che minaccia anche che, se qualche società proverà a rescindere i contratti dei giocatori iscritti al sindacato, ci saranno conseguenze ancora più gravi dal punto di vista legale. È una risposta diretta a quanto pubblicato da La Vanguardia, che chiede di licenziare i giocatori in protesta. Un articolo a cui fa da contraltare la netta presa di posizione di El País: “Questa è la fine dei privilegi dei club!”. In questo momento, il numero di iscritti all’AFE è salito a quasi 1.700, e all’ultima assemblea è stato eletto presidente il 30enne centrocampista del Barcellona Juan Manuel Asensi. “Non ci opporremmo ai viaggi fino alle sedi della partita né a continuare ad allenarci – spiega Asensi – ma non giocheremo”.

Gli occhi sono puntati sulla prima partita del turno, Castilla-Sabadell alla Ciudad Deportiva de Madrid, valida per la Segunda División. I ragazzi della squadra di casa, filiale del Real Madrid, si sono già incontrati nelle ore precedenti con Vicente del Bosque, centrocampista dei Blancos e delegato sindacale della squadra, che li ha informati sui motivi dello sciopero, ottenendo da loro l’assicurazione che non avrebbero giocato. Nel pomeriggio di sabato 3 marzo, nessuno scende in campo, e dopo aver atteso ulteriori 15 minuti l’arbitro dichiara sospesa la partita: è iniziato il primo sciopero della storia del calcio spagnolo. Ma il piatto forte viene servito la domenica, il giorno dedicato alle partite della Primera División. La Gaceta del Norte, storico giornale conservatore di Bilbao, esce la mattina con un titolo durissimo: “Schiavi d’oro”, in riferimento al fatto che l’AFE sosteneva che gli attuali contratti tenessero molti giocatori (quelli delle serie inferiori) in una situazione quasi di schiavitù. La situazione è molto tesa: Manuel Esteo ha già ricevuto alcune telefonate anonime di gente che gli ha promesso di ammazzarlo, se lo sciopero avrà luogo. E tuttavia, sabato l’ex-portiere era alla Ciudad Deportiva de Madrid a sostenere i ragazzi del Castilla e a difenderli dalle pressioni dei dirigenti.

I club hanno fatto di tutto, sostenuti dalla stampa conservatrice, per screditare gli scioperanti e mettere i tifosi contro di loro. La storia più ricorrente è che le società stanno perdendo un sacco di soldi per pagare i giocatori, aprire gli stadi, accogliere i fan e preparare tutto per degli incontri che non si giocheranno e per cui la gente ha già pagato il biglietto. Una strategia che attecchisce poco, in una Spagna in cui gli scioperi, dopo anni di repressione, sono visti da molti come sintomo di libertà e giustizia sociale. Addirittura, nel nuovissimo stadio Teresa Rivero di Vallecas, alla periferia di Madrid, i tifosi del Rayo Vallecano espongono nell’impianto deserto, dove si sarebbe dovuto giocare il derby contro l’Atlético, numerosi cartelli a supporto dello sciopero dei calciatori. “Non ci saranno ritorsioni, – annuncia nel tardo pomeriggio il presidente federale Pablo Porta – ma parlerei piuttosto di provvedimenti di fronte ad un atto di indisciplina sportiva, al quale tutti abbiamo senza dubbio assistito”. Ancora una volta è Cabrera Bazán, autentico protagonista mediatico di questi giorni, a intervenire: “Ai giocatori si può detrarre solo un giorno di stipendio. Il diritto del lavoro stabilisce chiaramente cosa si può fare in una situazione come questa, e cosa invece costituirebbe un abuso”. Trascorre una giornata impensabile: nessuno ha giocato, il campionato è fermo.

L’avviso con cui l’Atlético Madrid comunica ai tifosi il rischio che la partita contro il Rayo Vallecano possa non disputarsi.

Lunedì mattina, la stampa di destra torna a chiedere mano ferma contro gli scioperanti, e Porta, uomo dal solido passato falangista, si fa portavoce di queste richieste. Accusa i calciatori di non sapere nemmeno perché hanno scioperato, e promette che lavorerà con i club a delle sanzioni per scongiurare un’altra giornata come quella del 4 marzo. La reazione dei calciatori è durissima, e molti attaccano sui media club e Federcalcio. Tra i più taglienti, la punta del Real Madrid Santillana commenta, a proposito delle possibili multe: “Con questo stratagemma scompariranno i debiti dei club, giusto?”. Sei giorni dopo lo sciopero, l’AFE ha aggiunto alle sue fila 39 nuovi iscritti tra tutte le prime quattro categorie, tra i quali anche un noto calciatore straniero come Daniel Bertoni. La guerra del calcio spagnolo viene allora fermata, prima che possa deflagrare, dall’intromissione del governo, con figure come Antonio Vázquez e il Ministro della Cultura Íñigo Cavero, che sostengono apertamente le richieste dei giocatori. Questo spinge la Federazione e i club a venire a miti consigli, promettendo un incontro per discutere un miglioramento delle condizioni di lavoro dopo la fine della stagione. L’AFE, soddisfatta, revoca lo sciopero.

Il Real Madrid conquisterà il suo diciannovesimo scudetto, venendo però sconfitto in finale di Copa del Rey dal Valencia di Mario Kempes. Il Barcellona di Hans Krankl, invece, vincerà la Coppa delle Coppe, riportando un trofeo internazionale in Spagna per la prima volta dal 1966. Il 13 luglio, Asensi annuncerà la firma dei primi accordi tra l’AFE, i club spagnoli e la Federazione: il derecho de retención verrà pesantemente rivisto; sarà siglato un contratto collettivo che garantirà dodici paghe mensili più una tredicesima, un preciso numero di ore di lavoro al giorno e di giorni di ferie annuali, e il pieno riconoscimento dei diritti sindacali dei giocatori di calcio. Quello del 1979 non sarebbe stato l’unico sciopero del calcio spagnolo, ma è stato di sicuro il più importante e quello che ha conseguito i risultati maggiori, contribuendo in maniera non irrilevante a modernizzare il calcio spagnolo e a regolarizzare la figura del calciatore in quanto lavoratore, ponendo le basi per gli sviluppi futuri di tutto il settore. L’alba della democrazia spagnola toccò così anche il rettangolo verde.

Fonti

AFUERA Ángeles, 1979: La primera huelga del fútbol español, Cadena SER

CORCUERA José Ignacio, 1979 …Y a la tercera, el balón descansó un domingo, Cuadernos de Fútbol

DE MERA ALARCÓN Pablo F., 40 años de la primera huelga de futbolistas, secretos de un día histórico, La Vanguardia

MATALLANAS Javier G., “Recibí amenazas de muerte por montar la huelga de 1979”, As

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