Perché non ci sono calciatori neri in Argentina?

Tra le nazionali sudamericane, l’Argentina spicca senza dubbio come un caso particolare: la Selección campione del mondo è totalmente bianca. Al massimo qualche mulatto. In un continente di squadre (e nazioni) multietniche, in cui a chiunque possono venire in mente noti giocatori dell’uno o dell’altro paese che abbiano la pelle nera, l’Argentina sfugge decisamente a questa regola. E dire che la sua storia non è poi così diversa da quella del resto del Sudamerica: è stata per secoli una colonia europea, popolata a forza con schiavi provenienti dall’Africa che venivano usati come forza lavoro nelle piantagioni. Anche a voler considerare le effettive differenze socio-culturali tra le colonie spagnole orientali e quelle occidentali e settentrionali come Colombia, Perù ed Ecuardor, appare subito evidente come l’eccezionalità argentina resista anche al confronto con Uruguay e Paraguay (pensiamo a José Leandro Andrade e Paulo da Silva Barrios, per esempio).

Una convinzione frequente è che l’Argentina sia stata relativamente poco interessata dal fenomeno dell’importazione degli schiavi africani, e che pertanto la percentuale di popolazione afroargentina oggi sia sensibilmente inferiore a quella degli altri paesi sudamericani. Ma il censimento del 1778 mostra che all’epoca neri, meticci e mulatti nel paese erano pari a circa un terzo della popolazione totale. Oggi, le associazione afroargentine stimano che nel paese vivano circa 2 milioni di persone con questa origine, pari a circa il 4,5% della popolazione: un numero certamente più basso rispetto alla media del continente (13%), ma comunque tutt’altro che irrilevante. Da qui discendono due domande: come ha fatto questa percentuale a passare dal 33% al 4,5%? E, dal nostro punto di vista, come mai la percentuale di afroargentini nel calcio è molto inferiore al 4,5%, al punto da essere addirittura nulla in nazionale? Per quest’ultimo aspetto, basta considerare che nella storia c’è stato solamente un giocatore nero a vestire la maglia dell’Albiceleste, Alejandro de los Santos, attaccante dell’El Porvenir e dell’Huracán (di cui fu poi anche allenatore per brevi periodi) che giocò cinque partite in nazionale tra il 1922 e il 1925. Stiamo parlando di un secolo fa, per capirci.

La “scomparsa” dei neri argentini è stata spiegata in molti modi diversi, spesso fantasiosi. I fatti storici, invece, raccontano di una precisa volontà politica, emersa a partire dal libro del 1845 Facundo, o civiltà e barbarie, scritto da Faustino Domingo Sarmiento. In esso, l’autore esponeva una teoria razzista molto in voga all’epoca, secondo cui la strada per il progresso economico e sociale del paese passasse necessariamente dallo “sbiancamento” della popolazione: le nazioni più avanzate erano tutte bianche, e ciò doveva significare che le caratteristiche razziali influissero sul grado di civilizzazione di un paese. Le teorie di Sarmiento ebbero grande successo nella politica argentina del tempo (tanto che poi fu anche eletto Presidente, nel 1868), influenzando soprattutto Juan Bautista Alberdi, autore nel 1852 di Bases y puntos de partida para la organización política de la República Argentina, un documento che fu la base su cui fu realizzata la Costituzione del 1853. L’articolo 25 della carta diceva esplicitamente che il governo doveva incentivare l’immigrazione europea (pensando soprattutto a quella tedesca e anglosassone), così da aumentare il numero dei bianchi.

Tra il 1860 e il 1914, 4 milioni di europei migrarono in Argentina, cambiando radicalmente il tessuto sociale del paese. I governi non riconoscevano la popolazione nera, che venne confinata ai margini delle città, in condizioni socio-sanitarie sfavorevoli, e sostanzialmente esclusa dalla società. Chi aveva la pelle più chiara poteva però riuscire a rientrare in una delle categorie razziali che stavano tra il nero e il bianco (criollo, morocho, pardo e trigueño), potendo così ambire a un leggero miglioramento sociale. Chi apparteneva a queste categorie intermedie aveva più possibilità di trasferirsi in quartieri “più bianchi” e sposarsi con persone “più bianche”: nel corso di poche generazioni, una gran quantità di afroargentini riuscì a “sbiancarsi” e a conquistarsi un posto nella società dell’epoca. I calciatori, grazie alla fama e al rispetto dovuti al loro ruolo, erano tra gli uomini con maggiori possibilità di ascesa sociale. Il caso più esemplificativo è quello della famiglia Da Graca, che ha fornito tre generazioni di calciatori all’Atlético Los Andes: Manuel, che giocò negli anni Trenta, era nero; suo figlio Abel, attivo negli anni Settanta, era mulatto; infine il figlio di quest’ultimo, Hernán, che ha giocato negli anni Novanta, era quasi indistinguibile da qualsiasi argentino bianco di origini europee.

La tre generazioni di calciatori della famiglia Da Graca, con la maglia dell’Atlético Los Andes.

Tutto ciò, però, è solo parte della storia. Spiega perché il numero degli afroargentini è calato drasticamente nel giro di un paio di secoli, ma come abbiamo visto questa popolazione rappresenta ancora una quota non irrilevante della società. Per contro, gli afroargentini nel calcio, e in particolare in nazionale, sono praticamente inesistenti. La sottorappresentazione dei neri nel fútbol e nella società argentini è un fatto evidente eppure da sempre negato da più parti. Lo dimostra l’accoglienza molto critica che ha ricevuto un articolo della studiosa afroamericana Erika Edwards pubblicato dal Washington Post nel dicembre 2022, in cui si rispondeva alla domanda sul perché l’Albiceleste non avesse giocatori di colore. Ma il razzismo sistemico in Argentina si nota con facilità un po’ ovunque, e non solamente per via dei suoi aspetti più espliciti. La negazione della componente afrodiscendente del paese è stata tale che fino al 2010 nessun censimento contava le persone di colore, mentre in quell’anno emerse che solo lo 0,37% dei cittadini si identificava come afroargentino: c’è pochissima consapevolezza delle proprie origini, spesso meticce, e la tendenza generale è di considerarsi bianchi anche quando tratti somatici e colore della pelle sono differenti.

Che i non-bianchi in generale, quindi non solo gli afroargentini, siano sottorappresentati nel calcio è un altro fatto indiscutibile: secondo uno studio del 2015 di Julian R. Homburger, l’1% della popolazione è originaria dell’Estremo Oriente, mentre un’altra ricerca recente dell’Universidad Autónoma de Morelos individua un 2,5% di persone asiatiche e arabe. Eppure, quasi nessun esponente di queste comunità è mai arrivato nell’Albiceleste, così come sono rarissimi i casi di calciatori ebrei-argentini ad alto livello, nonostante la loro radicata presenza nel paese. È qualcosa che ha a che vedere con i criteri di selezione delle società di calcio fin dai settori giovanili, e che spesso ha radici inconsce: i ragazzi con la pelle più scura sono socialmente invisibili, e soffrono uno stigma che rende molto più difficile per loro trovare spazio nelle squadre di calcio. Ma a “invisibilizzarli” è ancora di più la narrazione sulla blanquitud dell’Argentina, che fa sì che anche un calciatore di pelle scura non venga percepito come afrodiscendente. Come è il caso di Fernando Tissone, la cui biografia su Wikipedia in italiano lo descrive solamente come “di origini liguri”, mentre nel suo passato ci sono anche avi di Capo Verde (a partire dagli anni Venti del Novecento, migliaia di capoverdiani liberi si trasferirono in Argentina in cerca di lavoro e in fuga dalla dominazione coloniale portoghese). Gli afroargentini sembrano un fantasma, ma basta scavare un po’ nella memoria collettiva per scoprirne molti di cui non si sospettava l’esistenza: Leonardo Rubén Astrada, Marcelo Alejandro Delgado, Carlos Galván, e soprattutto (per noi italiani) Miguel Montuori, primo nero a vestire la maglia azzurra.

L’Argentina è un paese pervaso da un razzismo sistemico tra i più particolari e tra i meno studiati, che sta venendo però a galla negli ultimi anni. Nel 2000, Horacio Cecchi aveva raccolto in un suo articolo su Pagina12 tutta una serie di casi di crimini razzisti di cui nessuno o quasi aveva sentito parlare. Più di recente, nel luglio del 2023, la giustizia argentina ha condannato tre poliziotti per l’omicidio del giovane calciatore del Barracas Central Lucas González, includendo – per la prima volta nella storia giudiziaria del paese – l’aggravante di odio razziale: il ragazzo è stato fermato assieme a degli amici per sospetto possesso di droga, ed è emerso dalle indagini che tale sospetto era motivato solamente dal fatto che avevano la pelle scura. Proprio in queste ultime settimane si è parlato molto dell’ascesa politica di Javier Milei, leader ultraliberista e di estrema destra che ha vinto le primarie di agosto ed è oggi il principale candidato alla presidenza per le elezioni di fine ottobre. Milei ha fatto più volte ricorso alla retorica razzista, rivendicando di “non doversi scusare per il fatto di essere bianco” e inserendo nel proprio programma una stretta “all’immigrazione incontrollata”. Anche se è poco noto in Europa, pure in Argentina, fin dagli anni Novanta, l’immigrazione africana è una realtà concreta.

Brian Lorenzo Pérez, attaccante afrodiscendente del General Roca, ha raccontato in un recente documentario per il network in lingua spagnola di Al Jazeera di aver subito insulti razzisti in campo fin da quando era piccolo, e che sono una costante nella vita di un nero in Argentina. Dalla sua intervista emerge anche come l’uso del termine negro (che in spagnolo ha lo stesso uso anche dell’italiano “nero”) non sia affatto neutro o esclusivamente amichevole, come spesso si pensa. Si tratta di una parola che, anche in Sudamerica, viene largamente utilizzata come insulto razzista, e contro la quale sempre più di frequente le nuove generazioni di attivisti e attiviste afrolatini fanno sentire le proprie critiche, oggigiorno segnalate anche sul sito del Ministero della Cultura di Buenos Aires. Sembrano fortunatamente lontani i tempi in cui Carlos Menem, Presidente lungo tutti gli anni Novanta, a un incontro negli Stati Uniti rispondeva a una domanda sulla situazione degli afroargentini dicendo banalmente: “Questo è un problema di paesi come il Brasile”.

Miguel Montuori con la maglia della Fiorentina, dove giocò tra il 1955 e il 1961. Suo padre era un immigrato napoletano, mentre la madre era afroargentina.

Nella sua intervista, Pérez dice che gli piacerebbe vedere, per il prossimo Mondiale, qualche giocatore nero nell’Albiceleste. Per come stanno le cose oggi, sembra però difficile che la sua richiesta potrà essere soddisfatta, a meno di un’esplosione di un giocatore come Juan Carlos Gauto, il 19enne attaccante appena trasferitosi dall’Huracán al Basilea. In generale, la battaglia per rendere visibili gli afrodiscendenti in Argentina deve partire innanzitutto da un piano culturale, portando le persone a prendere coscienza della propria eventuale origine africana. Cosa non semplice, dato che questa spesso affonda le proprie radici in vicende anche di un secolo o più fa, ma oggi con i moderni test del DNA è tutto più semplice. Nel 2022, una ricerca genealogica ha portato alla luce l’insospettabile discendenza africana di Diego Armando Maradona, un cui antenato era uno schiavo nero di San Juan, che ottenne la libertà dopo aver combattuto per l’indipendenza del paese ed ereditò il cognome dal suo vecchio padrone, José Fernández de Maradona.

La seconda parte di questa battaglia, è quella che diventerà sempre più importante nei prossimi anni. La comunità di argentini di seconda generazione – i figli degli immigrati senegalesi, maliani, liberiani e sierraleonesi giunti nel paese negli ultimi trent’anni – presto inizierà a emergere a livello sociale, e come vediamo in Europa lo sport è uno dei primi ambiti dove questi ragazzi iniziano a mostrarsi, essendo più accessibile rispetto a quello politico, imprenditoriale o artistico. La grande sfida dell’Argentina sarà farsi trovare pronta quando questo accadrà, perché come racconta la difficile esperienza del Vecchio Continente questo fenomeno porta sempre con sé la rumorosa ascesa dei vaneggiamenti identitari della destra razzista, di cui Milei è oggi un’inquietante avanguardia. Sui campi di calcio si gioca allora una partita che va ben oltre il mero contenuto sportivo.

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Fonti

CHEMEN Sabrina, Los negros invisibles del fútbol argentino (y de la sociedad), Perfil

EDWARDS Erika, Why doesn’t Argentina have more Black players in the World Cup?, The Washington Post

AJ+ Español, ¿Por qué no hay afrodescendientes en la selección argentina?, YouTube

SINAY Javier, La comunidad invisibilizada de 2 millones de personas que lleva a preguntarse: ¿es Argentina un país racista?, Redacción

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