Rashidi Yekini e la sua maledizione

Ricorda quel passaggio filtrante di Amokachi, d’istinto, senza guardare, a tagliare il campo in verticale. Il perfetto inserimento di George, che converge in area e di piatto gli serve un assist che mette fuori causa i due difensori bulgari. Ricorda che Rashidi Yekini è stato il più grande di tutti. Rashidi Yekini è. È… Le idee nella testa si fanno confuse, e si dissolvono nel caldo opprimente del maggio di Ibadan, nell’aria che sa di agrumi e tabacco.

Qualcosa stona. Qualcosa stona con quell’altro ricordo che gli viene naturale e irrazionale alla mente: i fischi, mentre entra in campo al posto di quel ragazzo in cui rivede il se stesso giovane. Come si può passare dal boato di gioia per un gol a quello di delusione per un suo ingresso in campo?

Due momenti che, nella testa di Rashidi Yekini – un uomo grande e grosso di quasi cinquant’anni che ciondola per le strade della Nigeria occidentale, in cerca del filo conduttore della sua vita – sono irrimediabilmente legati, quasi uno in fila all’altro. Ha solo alcuni brevi momenti di lucidità: ricorda la leggerezza del primo episodio e la fatica del secondo; aveva trent’anni, nel 1994, quando segnò il primo gol della sua nazionale ai Mondiali, e trentaquattro, nel 1998, quando subentrò a Nwankwo Kanu in un complicato ottavo di finale contro la Danimarca.

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Yekini in azione contro la Bulgaria, ai Mondiali 1994: le Super Eagles vinsero 3-0, per poi chiudere in testa al girone, perdendo contro l’Argentina ma superando la Grecia. Agli ottavi, furono eliminate dall’Italia.

L’inizio e la fine di una vita. La vita di Yekini non è iniziata nei primi anni Sessanta a Kaduna, non è divenuta la vita di un calciatore giocando tra le fine dello Shooting Stars di Ibadan e poi in quelle dell’Africa Sports di Abidjan, dove era visto male da tutti, perché tra ivoriani e nigeriani non corre poi tanto buon sangue. Non era iniziata nemmeno in cima alla montagna di gol messi assieme tra il 1990 e il 1994 con la maglia del Vitória Setúbal, ma al 21° minuto di quel giorno di giugno a Dallas, in cui rivelò la Nigeria al mondo del calcio. In cui si tuffò nella rete appena varcata dal pallone, si avvinghiò alle bianche corde sottili e urlò di gioia, ruggì di rabbia, pianse di dolore.

Come se si fosse levato un sortilegio, la Nigeria aveva preso a esistere con quel gol. Come se la Coppa d’Africa vinta nel 1980 con le magie di Muda Lawal fosse avvenuta in un tempo nascosto, prima del tempo stesso e prima della storia: il sortilegio di un calcio africano rimasto a lungo oltre i margini del mondo conosciuto.

Yekini aveva invece fatto parte di una generazione speciale, che ancora non sapeva che le era stato affidato il gravoso ruolo dell’anello di congiunzione: tra i pionieri della Coppa d’Africa del 1980, e la generazione d’oro delle Olimpiadi del 1996. Lui, John Chiedozie, Peter Rufai, Uche Okechukwu, Samson Siasia, Uche Okafor, Emmanuel Amunike, Daniel Amokachi, Finidi George. Quando lasciò la rete, Yekini si ritrovò in Grecia, e poi in Spagna, e poi di nuovo a Setúbal, ma il mondo in cui aveva condotto la Nigeria non era più fatto per i suoi gol, sempre meno frequenti. Sempre meno.

Fu allora che iniziò a pensare alla maledizione. Lawal fu il primo a esserne colpito: nel 1991 lo avevano trovato morto in casa sua, a Ibadan, poco prima di iniziare un nuovo campionato con la maglia dello Shooting Stars. Yekini era musulmano, e la religione gli aveva insegnato a diffidare delle antiche superstizioni yoruba; eppure i fischi dei suoi connazionali, quella sera a Saint-Denis. Cosa potevano significare, se non un sortilegio? Che nascondeva ai loro occhi tutti i 37 gol segnati con la maglia verde della nazionale, come aveva nascosto agli occhi del mondo la Coppa d’Africa del 1980.

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Yekini fu Pallone d’Oro africano nel 1993, capocannoniere del campionato portoghese nel 1994 e della Coppa d’Africa nel 1992 e nel 1994.

Un uomo che sa di essere maledetto, ha solo una cosa ragionevole da fare: non coinvolgere nessun altro nella sua sventura. Pensò così, mentre Bizerte, Riad, Abidjan, Lagos e Abeokuta gli passavano davanti come cartoline, coprendo in un attimo sette anni di vita. Non tornò a casa a Kaduna, ma si tenne lontano dalla famiglia, trasferendosi da solo a Ibadan. Entrò in affari con un amico, aprendo un cambiavalute; un giorno il negozio venne rapinato, Yekini perse tutti i suoi risparmi e l’amico perse la vita.

La maledizione lo aveva preso, e gli aveva assestato un altro colpo. Si emarginò, divenne uno di quegli spettri che si aggirano persi per le vie delle città ed elemosinano qualche moneta per comprarsi una porzione di platano arrostito dalle venditrici ambulanti su Onireke Road. Nel frattempo, la maledizione aveva preso anche due altri suoi compagni: Best Ogedegbe, con cui aveva giocato nello Shooting Stars, era morto tra le stesse strade di Ibadan, mentre Uche Okafor si era impiccato nella sua casa in Texas.

Le idee che gli passavano in testa come automobili lungo una superstrada si facevano sempre più tenui. Aveva smesso di tenere conto dei giorni e delle ore. Un giorno di maggio del 2012 – nel caldo opprimente di Ibadan, con l’aria che sapeva di agrumi e tabacco – gli ultimi vaghi ricordi di un gol e di un’esultanza esplosagli dal profondo del cuore si lasciarono trasportare via da un improvviso quanto inatteso soffio di vento. E Rashidi Yekini decise di seguirle.

 

Fonte

COCCHIS Roberto, In morte di Rashidi Yekini, Lottavo

GUELPA Luigi, Rashidi Yekini, l’eroe tradito dalla Nigeria, QuattroTreTre

Untold story of Rashidi Yekini’s last days, Premium Times

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