“I calciatori comuni, per lo più sciiti scarsamente istruiti provenienti dai bassifondi di Baghdad, erano le persone che in Iraq si avvicinavano di più agli eroi. Avevano voluto giocare a calcio, ed erano grati di aver guadagnato abbastanza per vivere.” – Simon Freeman
Il 2003 è un logo, che appariva in un angolo del televisore a cadenza regolare, ogni giorno, giorno dopo giorno: Iraq. La guerra diventava brand, diventa show televisivo e intrattenimento: il Grande Fratello al massacro. Un’immagine passò un giorno su un notiziario, in mezzo a quelle di mezzi corazzati, mortai scintillanti e soldati impolverati: quella di un gruppo di ragazzini che prendevano a calci un pallone su un campo di terra peggiore del più brutto campo su cui avessi mai messo piede. Qualcuno commentò che i bambini non perdevano la speranza, e guerra o non guerra andavano avanti a giocare a calcio anche sui campi minati. Probabilmente non era vero, non esistevano bambini così stupidi da fare una cosa simile, ma era un’immagine forte e romantica, e tanto bastava. Non è questo il luogo né il momento per mettersi a rivangare cosa fu quella guerra (e soprattutto cosa fu quella fialetta di antrace mostrata da Colin Powell all’assemblea dell’ONU), ma non si poteva non partire da qui.
Anche se la storia dell’Iraq è ben più vecchia, e rotola – al riparo da occhi indiscreti, che fino a pochi anni fa probabilmente neppure sapevano si giocasse a calcio a Baghdad – dai piedi di Ammo Baba, leggendario bomber anni Sessanta-Settanta e poi allenatore della nazionale che vinse il campionato mondiale militare 1977 ai rigori contro l’Italia, a quelli di Ahmed Radhi, autore dell’unico gol iracheno agli storici Mondiali del 1986, segnato al Belgio, e poi Pallone d’Oro asiatico nel 1988. Solo che a osservare quei passaggi generazionali c’era l’occhio vigile di Uday Hussein, figlio del dittatore Saddam Hussein incaricato dal padre della gestione dello sport, e del calcio in particolare (curioso e al tempo stesso inquietante, il rapporto tra i rampolli dei regimi e il football: pensate ad Al-Saadi Gheddafi, che dalla Libia venne addirittura a giocare in serie A per fare piacere al padre).
Il regno di Uday fu atroce e spietato: incapace di sopportare l’onta della sconfitta, era solito minacciare i giocatori della nazionale ricordando loro che, in caso di risultato negativo, ne avrebbero subito le conseguenze. E Uday Hussein era un uomo che manteneva le promesse: era solito scegliere alcuni calciatori, a mo’ di esempio, farli imprigionare e lasciarli qualche giorno senza cibo e acqua, facedoli colpire sui piedi una ventina di volte al giorno. Sharar Haydar – difensore intervistato in un documentario di Tom Farrey per ESPN nel 2002, dopo essere fuggito dall’Iraq nel 1998 – raccontò di essere stato imprigionato e torturato in quattro diverse occasioni; e lui era solo uno dei numerosi atleti su cui si era abbattuta la furia del primogenito di Saddam. Uday morì nel 2003, ucciso in un attacco alla sua casa di Mosul dalle truppe americane; qualche mese dopo suo padre Saddam fu catturato, processato e condannato a morte: la sua impiccagione fu trasmessa in tv anche in Italia – per tornare a quel grande reality show a puntate che fu la guerra in Iraq – pochi giorni dopo che a Tokyo il Boca Juniors di Carlos Tevez ebbe sconfitto ai rigori il Milan nella Coppa Intercontinentale.

Questo per capire cosa volesse dire giocare a calcio in Iraq sotto il regime di Saddam: una volta Emanuela Audisio scrisse, a proposito della celeberrima – e per la verità mistificata – Partita della Morte svoltasi a Kiev nell’agosto 1942, che “è meglio non credere a chi dice che in fondo è solo una partita. In fondo non lo è mai.” Ci sono momenti in cui il calcio non è più solo spettacolo e divertimento, ci sono momenti in cui però possiamo farlo tornare ad essere tutto questo: la nazionale giovanile dell’Iraq che arrivò a disputare la finale per la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene 2004 – perdendo di misura contro l’Italia – era cresciuta sotto Saddam e Uday, per loro giocare a calcio significava sofferenza e umiliazione in caso di sconfitta; per Gilardino e gli altri, significava sicuramente qualcos’altro.
Cosa avranno pensato Younis Mahmoud e i suoi compagni, al sapere che aver perso quella partita che poteva valere una medaglia storica non avrebbe comportato alcuna punizione? Una generazione cresciuta sotto una dittatura sanguinaria e divenuta adulta sotto la guerra e l’occupazione, costretta a giocare a calcio quasi in esilio, ad allenarsi in mezzo ai bombardamenti, in un paese distrutto. Nel 2007 quei ragazzi del nuovo Iraq furono l’ossatura della nazionale che vinse a sorpresa la sua prima Coppa d’Asia; Mahmoud fu eletto miglior giocatore del torneo.
I media raccontano di un paese in festa per le strade, nonostante il coprifuoco imposto dal governo, dopo che solo tre o quattro giorni prima 50 persone erano morte a Baghdad in un attentato terroristico. Quella dell’Iraq del 2007 è la storia di una delle squadre più incredibili che siano mai esistite, perché il calcio non è solo dell’Italia e del Brasile, del Barcellona e del Bayern Monaco. Pare che anche un losco figuro come l’allora presidente FIFA Joseph Blatter si sarebbe commosso, mentre si congratulava con i vincitori. Allo stadio di Giacarta, Indonesia – dove si disputò la finale – c’era appeso uno striscione, quel giorno: “La guerra non ucciderà mai il calcio”.
A dispetto di tutto questo, dieci anni dopo, l’Iraq è un paese che non si è ancora risollevato, né economicamente né socialmente, ed è invece piombato nella morsa dell’ISIS e, di conseguenza, in un’altra guerra. Nel gennaio 2015, nella sua roccaforte di Mosul, lo Stato Islamico ha fucilato in piazza tredici ragazzi che stavano tifando per la nazionale di calcio, lasciandone poi i corpi esposti in piazza. Nel marzo 2016, in un villaggio a sud di Baghdad, un uomo si è fatto esplodere alla fine di una partita di calcio, uccidendo altre 29 persone. Sul campo minato iracheno, un pallone però rotola ancora.
Fonti
–Il calcio riporta la festa in Iraq, Al Maliki: “È il trionfo dell’impossibile”, La Repubblica
–In pictures: Iraq win the Asia Cup, The Guardian
–BARBIERI Yuri, Coppa d’Asia 2007: Iraq, la grande illusione, Football Pills
–CANTALUPI Stefano, Iraq, una gioia dal calcio: trionfo in Coppa d’Asia, La Gazzetta dello Sport
-FREEMAN Simon, Baghdad Football Club: La tragedia del calcio nell’Iraq di Saddam, Isbn Edizioni
–SHERWELL Philip, Saddam’s son tortured defeated footballers, The Telegraph
–SPINELLA Vanni, Nazionali in esilio, storie di guerra e di pallone, Sky.it
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