Il calcio più famoso e decisivo della storia sportiva di Zvonimir Boban è stato dato il 13 maggio 1990, non a un pallone ma a un poliziotto. È una storia che chiunque si interessi di sport e politica, o dei Balcani, ha sentito molte volte: la Battaglia del Maksimir, quando i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado si scontrano nello stadio della capitale croata, causando l’intervento della polizia. Nel tumulto, il 21enne capitano della Dinamo scorge un poliziotto che sta picchiando un tifoso della sua squadra, e interviene in suo soccorso. Un fotografo, con tempismo sensazionale, coglie quell’attimo, destinato a fare la Storia. Per molti, rappresenta l’incarnazione stessa delle guerre jugoslave e della lotta indipendentista croata. È talmente iconico da essere stato trasfigurato in un celebre murale che si può ammirare oggi tra le vie di Zagabria. E ha fatto di Boban l’eroe nazionale di cui la Croazia aveva bisogno.
Si è scritto molto, su quella partita. La vulgata vuole che sia stata l’evento scatenante delle guerre jugoslave, anche se ovviamente le cose sono ben più complesse di così: le guerre non scoppiano per una partita di calcio, anche se queste ultime possono diventare le catalizzatrici di tensioni identitarie e sociali preesistenti. E, nel caso specifico del Maksimir, gli scontri tra tifosi della Dinamo e della Stella Rossa anticiparono lo scoppio della guerra d’indipendenza croata di più di un anno: se bomba fu, era stata a scoppio decisamente ritardato. Ma il mito del Maksimir porta con sé un’altra grande leggenda, appunto: quella di Boban come eroe del nazionalismo croato. In un contesto sociale in cui la polizia e le forze armate jugoslave erano decisamente sotto il controllo dei serbi, il capitano della squadra simbolo dei nazionalisti croati che prende a calci un poliziotto (serbo) per difendere un suo connazionale, ha una portata simbolica deflagrante. Talmente forte da resistere anche alla prova dei fatti: per esempio, il poliziotto in questione non era davvero un serbo, ma un bosniaco musulmano.
Il nazionalismo ha bisogno di miti, più che di fatti, per alimentare le proprie narrazioni e per consolidarle. L’aspetto curioso, però, è che, prima del suo celebre calcio al Maksimir, Boban non era esattamente l’eroe nazionalista ideale. Nel 1989, intervistato dalla rivista jugoslava Tempo a proposito del crescente fenomeno identitario e violento nel tifo calcistico, aveva detto che i più estremisti tra i tifosi nazionalisti del paese avrebbero dovuto essere rieducati ai principi di una società multiculturale. “Cosa significa cantare Siamo croati, quando serbi, musulmani e albanesi giocano nella nostra squadra?” contestava, riferendosi a un coro popolare dei Bad Blue Boys della Dinamo. A quel tempo, sebbene la squadra fosse composta per la maggior parte da giocatori di Zagabria e dintorni, comprendeva anche i bosniaci Muhamed Preljević e Miralem Ibrahimović, il serbo-bosniaco Miodrag Đurđević, lo sloveno Stanislav Komočar e il kosovaro-albanese Kujtim Shala. Lo stesso Boban era nato nella cittadina di Imotski, nell’entroterra dalmata, al confine con la Bosnia-Erzegovina.
Malgrado la giovane età, prima degli eventi del Maksimir aveva appunto preso le distanze dalle pulsioni nazionaliste che minacciavano l’integrità della Jugoslavia, e anche dopo i fatti del 13 maggio 1990 non fu certo lui a legittimare la sua identificazione con un simbolo identitario croato. Negò subito, infatti, che il calcio sferrato al poliziotto fosse stato motivato da una spinta nazionalista e antiserba: bensì, aveva visto dei suoi parenti attaccati dalla polizia ed era intervenuto per difenderli. Dopo aver urlato contro il poliziotto, era stato a sua volta aggredito, e aveva dovuto reagire. Parlando con Tempo subito dopo gli incidenti di Zagabria, spiegò che il suo non era stato assolutamente un attacco contro la Jugoslavia, i suoi politici, né tantomeno la polizia, ma uno scontro tra due persone (lui e il poliziotto). La sua versione si arricchì, in seguito, di ulteriori dettagli: prima disse che era intervenuto per difendere un tifoso della Dinamo, facendo il suo dovere di capitano; poi aggiunse che avrebbe fatto lo stesso per qualsiasi tifoso di qualsiasi squadra che fosse stato ingiustamente aggredito da un’altra persona.

A dipingere Boban come un nazionalista croato fin dal primo momento furono, paradossalmente, proprio i serbi. La stampa di Belgrado lo definì come un “selvaggio” e un hooligan, rifacendosi al diffuso stereotipo dei croati come violenti e aggressivi, oltre che ovviamente ostili ai serbi. Politika arrivò a dire che era un membro attivo dell’HDZ, cioè il partito Unione Democratica Croata di Franjo Tuđman, che appena due settimane prima della partita aveva vinto le elezioni parlamentari in Croazia: ovviamente, a quel tempo Boban non era affiliato a nessun movimento politico. Dragan Stojković, suo compagno di Nazionale e capitano della Stella Rossa, nonché esplicitamente sostenitore del Presidente serbo e nazionalista Slobodan Milošević, disse addirittura che Boban avrebbe dovuto essere arrestato. La Federcalcio jugoslava decise di sospenderlo dalla convocazione in Nazionale, facendogli così perdere i Mondiali del 1990. A dispetto dei tentativi del centrocampista croato di non farsi strumentalizzare dalla politica, la sua figura assunse rapidamente una dimensione mitologica, contemporaneamente in senso negativo (da parte serba) e positivo (da parte croata).
A questo secondo aspetto contribuì anche lo scoppio della guerra e l’uso che Tuđman fece del calcio durante il conflitto. La Dinamo Zagabria venne rinominata HŠK Građanski, tornando al suo nome in epoca pre-socialista, e venne creato un campionato locale indipendente. Inoltre, già il 17 ottobre 1990 la Croazia debuttava come selezione in amichevole contro gli Stati Uniti, per poi affiliarsi ufficialmente alla FIFA nel luglio del 1992. In questo contesto, gli atleti croati divennero degli ambasciatori simbolici del paese, incarnazione dei valori nazionali, e furono accreditati letteralmente come “cavalieri croati”, richiamando a un’iconografia guerriera e tradizionale. Oltre a questo, il fatto che Boban fosse stato vittima di una gogna mediatica e addirittura escluso dalla convocazione per i Mondiali contribuì a rinforzare l’idea di un martire della causa croata, discriminato dagli oppressori serbi a causa delle sue origini.
Il centrocampista balcanico ha finito per collaborare in maniera più o meno consapevole alla costruzione mitologica dell’eroe-Boban. La sua stessa ritrosia ad accettare l’etichetta di simbolo nazionale e a rivendicare la motivazione identitaria del suo gesto ha finito per alimentare l’immaginario romantico dell’eroe riluttante. Più volte, nel suo post-carriera, ha dichiarato di non sentirsi un eroe o un simbolo di resistenza, dipingendosi piuttosto come una persona comune (cosa che decisamente non era, visto il suo ruolo di capitano della Dinamo) e accreditando in sua vece i soldati che combatterono durante la guerra. “Non ho mai voluto il ruolo dell’eroe; i veri eroi sono i soldati che hanno combattuto e creato la Croazia. Solo perché una volta ho colpito un poliziotto, non sono un eroe” ha detto nel 40° anniversario del Maksimir. Ma qual è il confine tra la modestia, magari anche l’imbarazzo per un ruolo che genuinamente non sente che gli appartenga, e una più volontaria autocostruzione mitica, forse pure un po’ demagogica?
Come tutti i miti, anche quello del calcio di Zvonimir Boban al Maksimir è stato raccontato e modificato più volte, adattandosi a nuove epoche e nuove sensibilità. Il protagonista della vicenda aveva iniziato parlando di autodifesa e di sostegno a un proprio parente, specificando che non era in alcun modo un gesto politico di alcun tipo: una spiegazione figlia di un’epoca in cui la Jugoslavia esisteva ancora (e lo avrebbe fatto per un altro anno buono), e in cui Boban voleva salvaguardare la propria carriera, oltre che la propria sicurezza personale. Nel 2020, però, intervistato da Simon Kuper, disse che il suo gesto era stato un attacco al regime jugoslavo, e quindi l’espressione di una protesta per maggiori libertà civili, in particolare la libertà di parola. Ha continuato a negare che ci fossero state motivazioni nazionaliste, ma negli ultimi anni ha rivelato di essere cresciuto in un contesto anticomunista, in una famiglia “cattolica e patriarcale”, e con un padre nazionalista croato.

Politicamente, Boban si è dunque sempre mantenuto in un equilibrio piuttosto ambiguo. Nel corso degli anni Novanta è diventato effettivamente molto vicino a Tuđman, e alla sua morte, nel 1999, lo ha celebrato come un autentico padre della patria (minimizzando e sorvolando sulle derive autoritarie del suo governo). Tuttavia, nel decennio successivo è divenuto sempre più critico verso la classe politica croata e, in particolare, verso l’HDZ, sebbene in maniera non troppo esplicita. Sono stati anni anche di un’evidente maturazione personale, ben rappresentata dalla decesione, una volta ritiratosi, di iscriversi all’Università di Zagabria e laureandosi infine nel 2004 in Storia con una tesi sul Cristianesimo nell’Impero romano. Nel 2015, Boban ha poi sorpreso molti quando ha dichiarato al quotidiano Jutarnji list che avrebbe votato per Zoran Milanović del Partito Socialdemocratico, seppur sempre motivandolo con una posizione in un certo senso conservatrice, criticando il vuoto ideologico della destra croata contemporanea.
Lo studioso Dario Brentin sostiene che questa transizione verso il centrosinistra abbia rappresentato un nuovo capitolo nell’autocostruzione dell’eroe-Boban: figura politicamente inclassificabile e trasversale (e forse anche per questo nazionale), mai allineato a nessuno e refrattario ai compromessi. Di nuovo unificatrice, anche se in maniera molto diversa rispetto a come lo fu 35 anni fa, in un quadro di crisi politica e identitaria del suo paese. Nonostante tutto questo, ha continuato a mantenere una certa distanza di sicurezza dai nazionalisti. Per esempio, discutendo con Kuper nel 2020: “Questa idea patriottica croata fa parte della mia famiglia, ma non credo che i croati siano migliori degli altri popoli: sono semplicemente miei, niente di più”.
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Fonti
–“Football and the collapse of Yugoslavia” with Zvonimir Boban and Branko Milanovic
-MILLS Richard, The Politics of Football in Yugoslavia: Sport, Nationalism and the State, I. B. Tauris