Maradona e l’ingenuità politica

Nel 1987 Diego Armando Maradona conobbe per la prima volta di persona uno dei suoi più grandi miti, il Presidente cubano Fidel Castro, di cui portava un tatuaggio sulla gamba sinistra. L’attaccante argentino era stato insignito di un premio dall’agenzia di stampa dell’Avana Prensa Latina, e aveva quindi viaggiato fino a Cuba per ritirare il riconoscimento e poter incontrare Castro. Fu quello l’inizio di una lunga amicizia, durata per tutta la vita, che rappresenta ancora oggi il più stretto rapporto mai stabilito da un calciatore di fama internazionale con un leader politico. Già all’epoca Maradona divideva i tifosi per le sue simpatie comuniste, che insieme al genio sportivo e allo spirito ribelle ne fecero un idolo indiscusso della sinistra. In realtà, però, la storia politica di Maradona è ben più complicata e, sorpattutto, controversa di così.

Che Maradona si considerasse comunista negli anni Ottanta è fuor di dubbio. Cresciuto tra gli anni Sessanta e Settanta in una famiglia povera nel barrio di Villa Fiorito, a Buenos Aires, passò gran parte dei suoi anni giovanili sotto la dittatura militare: prima quella salita al potere nel 1966 con Onganía e rimastaci fino al 1973, e poi quella sorta nel 1976 con Videla. La vita umile in un paese soggiogato dai regimi militari fascisti sostenuti dagli Stati Uniti lo spinse verso sinistra, grazie anche al tramite ideologico dell’illustre connazionale Ernesto Che Guevara (di cui si fece invece un tatuaggio sul braccio destro). Di conseguenza, fin dalla fine degli anni Settanta sviluppò una forte avversione per la Chiesa Cattolica, dovuta in particolare all’impegnò anticomunista (ed estremamente ambiguo verso le dittature sudamericane) di Papa Giovanni Paolo II. La sua identità politica era dunque costruita essenzialmente per contrasto.

Maradona sentiva un’istintiva vicinanza ai più deboli e agli svantaggiati, ben dimostrata nei suoi anni a Napoli e in vari atteggiamenti tenuti nel corso della sua vita. Chi lo ha conosciuto racconta di una persona estremamente sensibile e generosa, che non si tirava mai indietro nell’aiutare qualcuno in difficoltà, spesso senza nemmeno fare troppe domande sulla situazione. L’esempio perfetto è la leggendaria partita di Acerra del 18 marzo 1985, organizzata per raccogliere fondi per pagare una delicata operazione medica a un bambino di un anno, di cui l’attaccante argentino aveva solo sentito parlare dal compagno di squadra Pietro Puzone. Ma questa coscienza politica istintiva prestava il fianco a non poche ingenuità. Odiando visceralmente l’imperialismo americano, Maradona finì spesso per entrare in contraddizione con sé stesso. Già negli anni Novanta sostenne politicamente Saúl Menem, Presidente peronista di destra e fortemente liberista, che negli anni Settanta, da avvocato, era stato un oppositore della giunta militare.

L’ingenuità è stata in effetti il vero tratto politico della vita di Maradona, e un episodio sembra sottolinearlo meglio di ogni altro: il suo arresto per possesso di cocaina nel 1991 a Buenos Aires. Fu un grosso scandalo, che spaccò l’opinione pubblica argentina. Menem intervenne prontamente per difendere il calciatore, definendolo paternalisticamente “un ragazzo che ha bisogno di essere aiutato”. I due si erano conosciuti due anni prima, quando il Presidente neo-eletto aveva incontrato i giocatori dell’Albiceleste prima di una partita di beneficenza: Maradona, in quell’occasione, aveva parlato di “orgoglio” e “speranza” per la presenza di Menem. Ma, come è stato confermato solo di recente, nel 1991 fu proprio il leader argentino a far trapelare ai media la voce dell’arresto del calciatore, per far scoppiare un caso e distogliere l’attenzione dalla discussa Ley de Convertibilidad, che equiparava il valore del peso argentino al dollaro statunitense. Inizialmente, Maradona ruppe con Menem, accusandolo di sfruttarlo per scopi politici e di essere peggio di un dittatore. Ma nel 1995, con le nuove elezioni, partecipò attivamente alla campagna per la sua rielezione.

Maradona vestito da Bin Laden nell’ottobre 2001.

Il suo rapporto con Menem, il politico che distrusse l’economia argentina negli anni Novanta e che era tutto l’opposto di un campione della povera gente, è stato solo il primo segno della confusione politica di Maradona. Nel settembre del 2001 andò a trovare proprio Menem, nel frattempo agli arresti domiciliari a causa di un’accusa per traffico d’armi: lo fece con indosso una maschera di Osama bin Laden, il mandate degli attentati terroristici negli Stati Uniti che pochi giorni prima avevano fatto quasi 3.000 morti e oltre 6.000 feriti. Uno scherzo di cattivo gusto per alcuni, ma non per l’ex-calciatore argentino, tanto è vero che il 30 ottobre successivo, per i festeggiamenti del suo 41° compleanno, Maradona si vestì nuovamente da Bin Laden. Il suo viscerale e per nulla immotivato anti-americanismo lo aveva spinto verso posizioni populiste e alquanto ambigue. Intervistato nel primo anniversario degli attentati dell’11 settembre disse: “Osama bin Laden è l’idolo di tutti noi. L’unico che può dire ‘Ammazzerò questi americani figli di puttana che opprimono tutto il mondo'”.

Diventa necessario interrogarci, allora, se la sua vicinanza a Fidel Castro – e poi ad altri leader della sinistra sudamericana più recenti, come Hugo Chávez, Lula, Evo Morales e Rafael Correa – fosse fondata su basi ideologiche o solo sull’identificazione di un simbolo opposto agli Stati Uniti. In poche parole: Maradona era di sinistra o banalmente stava con chiunque considerava nemico degli americani? Probabilmente nemmeno lui lo sapeva. D’altronde, verrebbe da chiedersi come si possa sostenere Néstor Kirchner e, al tempo stesso, aver appoggiato fino all’ultimo il suo doppio negativo Menem. Come si può essere un uomo della povera gente e contemporaneamente glorificare la sfavillante ricchezza degli Emirati Arabi Uniti, costruita sullo sfruttamento dei lavoratori migranti? Accadde nel 2011, quando firmò un contratto faraonico con l’Al-Wasl, andando a guadagnare 4,5 milioni di dollari all’anno e ottenendo anche un jet privato in dono.

“Voglio passare la mia vita a Dubai” commentò al momento del suo trasferimento. Quanti gradi di separazione ci sono tra la città dei privilegiati per eccellenza e il sogno socialista dell’Avana che aveva visitato per la prima volta 24 anni prima? Nemico giurato della FIFA e della corruzione dei potenti del calcio, Maradona aveva finito per vendersi senza troppe preoccupazioni a uno stato che investiva moltissimo nel pallone globale e che grazie al proprio potere economico si era conquistato un posto di prestigio nella FIFA. Nel 2019, ricordando il suo periodo negli Emirati, disse che il paese era un “modello di tolleranza”. Mentre invece si trattava e si tratta tutt’oggi di un modello di sfruttamento, di una dittatura che reprime il dissenso, umilia le donne e nega l’esistenza delle persone LGBTQ+. Un paese che ha tre le proprie vittime anche i numerosi lavoratori provenienti dall’Asia meridionale, come ad esempio dal Bangladesh, dove Maradona e l’Argentina del calcio sono tradizionalmente visti come dei miti dopo il Mondiale del 1986 e il gol della Mano de Dios segnato all’ex-potenza coloniale inglese.

Ma l’elenco potrebbe ulteriormente allungarsi. Nel maggio del 2018 Maradona accettò di diventare il presidente dei bielorussi della Dynamo Brest, e a luglio, quando fu ufficialmente presentato a capo del club, disse che sognava di poter fare una foto assieme al Presidente Lukashenko. L’avventura durò in realtà pochissimo, perché già a settembre l’argentino assumeva un incarico d’allenatore in Messico, ma è giusto ricordare che i contatti con la Dynamo erano stati stabiliti in vista dei Mondiali in Russia, a cui Maradona fu invitato dalla FIFA con un ruolo promozionale. Anche qui, i tempi delle parole di fuoco contro Havelange e Blatter erano ormai lontanissimi. Già nel 2011, inoltre, Maradona aveva accettato un ricco ingaggio da parte del dittatore ceceno Ramzan Kadyrov per recarsi a Grozny e giocare un’amichevole di propaganda in favore del regime locale. L’unica consolazione, in quel caso, fu che non si trattò della sola stella del calcio mondiale ad aver risposto positivamente all’invito.

Maradona scherza in campo con Kadyrov.

Un ritratto politico molto onesto di Maradona lo ha scritto nel 2007 Simon Kuper, iconico autore di Football Against The Enemy, sul sito di Channel 4. “Qualunque siano i cambi politici di Maradona, è sempre stato un nazionalista appassionato” sosteneva Kuper, spiegando come la politica argentina verte molto più sul concetto di nazionalismo che sul dualismo tra destra e sinistra. Nel 1979, quando 19enne vinse il Mondiale juniores, Maradona sembrò poi abbastanza inorgoglito dei complimenti dei generali, e disse che sarebbe stato pronto a difendere il suo paese in guerra, se fosse stato necessario. Solo dopo la fine della dittatura iniziò a parlarne apertamente contro, denunciandone i crimini, come fatto in un’intervista rilasciata nel 2001 a Gianni Minà per La Repubblica.

La sua evoluzione politica è stata lunga, ma è possibile che anche questo odio verso la giunta militare abbia radici nazionaliste, che affondano nel rispetto per il popolo argentino ferito dal regime. Se mettiamo da parte il suo incredibile talento come calciatore e la fama sportiva che si è conquistato, Maradona è stato essenzialmente un uomo comune, di quelli che maturano un interesse per la politica legato alla contingenza, a esperienze e condizioni della propria vita, ma mai seriamente approfondito. Non possono allora stupirci tutte queste contraddizioni: un uomo vicino ai poveri ma sedotto da alcuni dei ricchi più spietati del pianeta; un socialista più affascinanto dagli uomini di potere che dall’ideologia; un oppositore degli Stati Uniti talmente radicale da abbracciare un anti-imperialismo a senso unico. Ma la storia politica di Maradona non è appunto così diversa da quella di tanti altri.

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