Come Infantino è diventato il Trump del calcio

Giovedì scorso Gianni Infantino ha presentato il sorteggio del Mondiale per club del 2025, la prima edizione di un nuovo torneo su cui ha investito moltissimo della sua legacy come presidente della FIFA. Per condire un evento così importante, non ha voluto fare a meno di mandare in onda un messaggio del suo “amico molto speciale” Donald Trump, che guiderà gli Stati Uniti fino alla fine del 2028, ospitando quindi il Mondiale per club, quello per nazionali del 2026, e anche i prossimi Giochi Olimpici. “Gianni è un vincente. – ha detto Trump nel video – Lui è il presidente, e io sono il presidente”. Poi è iniziato il sorteggio, inaugurato – come se non fosse già abbastanza – facendo pescare la prima sfera a Ivanka Trump e a suo figlio Theodore. Mentre in platea c’era ovviamente il marito di Ivanka, Jared Kushner, già consigliere di Donald Trump e riconosciuto per essere l’uomo che gli ha portato la finale dei Mondiali praticamente nel giardino di casa, al MetLife Stadium di East Rutherford, New Jersey.

Una cerimonia grottesca e inusuale, che ha suggellato la macabra alleanza tra i due più influenti populisti della politica mondiale, destinata a dominare lo sport più popolare del pianeta per i prossimi quattro anni. E dire che, quando era asceso ai vertici della FIFA, Infantino si poneva in modo completamente diverso. Era il febbraio del 2016 e il dirigente italo-svizzero era stato investito del non semplice compito di traghettare l’organizzazione fuori dal disastro a cui l’aveva condotta Sepp Blatter, costretto a dimettersi mesi prima perché travolto da uno scandalo corruzione e infine colpito da una squalifica di otto anni nel dicembre 2015. La credibilità della FIFA era più bassa che mai, e Infantino era stato scelto per ripulirla dal malaffare e dai sospetti. Nato in Svizzera in una famiglia di umili immigrati italiani, era riuscito a conquistarsi un posto di primo piano ai vertici del calcio ponendosi come una persona ragionevole e differente dagli altri facoltosi politici del pallone. In qualità di segretario generale della UEFA era stato colui che aveva introdotto il tanto atteso Fair Play Finanziario, per portare stabilità ed equità economica nella gestione dei club.

Nel suo programma, supportato da figure come Fabio Capello e José Mourinho, Infantino aveva parlato di riforme urgenti e di lotta alla corruzione. Una volta eletto, aveva detto che la sua idea per la FIFA era quella di “un’organizzazione che aiuti ogni paese del mondo a sviluppare il proprio calcio” e parlava di sostegno alle federazioni più piccole, povere e marginali. Mentre nel mondo occidentale crescevano i partiti di estrema destra e Trump si preparava a conquistare la sua prima presidenza, Infantino si presentava al mondo con un messaggio in controtendenza: “Dobbiamo costruire ponti, non muri”. Pochi mesi dopo assicurava che la Coppa del Mondo del 2026 – la prima che gli sarebbe toccato assegnare – sarebbe stata “pulita”, dopo le accuse e i sospetti che avevano circondato le precedenti edizioni, tra cui soprattutto quella prevista per il 2022 in Qatar, un lascito di Blatter. Era il presidente progressista e riformista, un emulo sportivo di Barack Obama, arrivato alla Casa Bianca dopo i nefasti quattro anni di George W. Bush.

Ma risollevare le sorti, mediatiche ed economiche, della FIFA non era un affare semplice. Soprattutto, la corsa di Infantino partiva con l’handicap: pur non avendo avuto alcuna responsabilità nelle assegnazioni, sarebbe stato il volto dell’associazione durante i Mondiali in Russia e in Qatar, dividendo il palco d’onore con Vladimir Putin e con l’emiro di Doha. Si può essere progressisti e contemporaneamente stringere le mani e chiacchierare amabilmente con politici di questa risma? Già nell’aprile del 2016 l’immagine positiva di Infantino aveva iniziato a incrinarsi: il Guardian rivelava che il nome del presidente della FIFA compariva infatti nei discussi Panama Papers. C’era la sua firma su un contratto risalente al decennio precedente in cui, da dirigente della UEFA, aveva approvato la cessione dei diritti tv delle competizioni europee in alcuni paesi sudamericani alla società di un imprenditore argentino coinvolto in un grosso scandalo di corruzione. Alla fine dell’anno, Donald Trump veniva eletto Presidente degli Stati Uniti con una politica del tutto all’opposto rispetto a quella di Infantino, parlando di muri e divieti d’ingresso negli USA per i musulmani. Nel marzo 2017 il presidente della FIFA avvisava quello americano, il cui paese era candidato a ospitare i Mondiali del 2026: “Nelle competizioni FIFA tutte le squadre qualificate, compresi i tifosi e i dirigenti, devono avere libero accesso al paese ospitante, altrimenti niente Mondiale. Questo è ovvio”.

Tre amici che si divertono alla partita: Gianni Infantino tra Mohammad bin Salman e Vladimir Putin, nell’estate del 2018.

Poi sono arrivati i Mondiali in Russia. Il ruolo di Gianni Infantino, che all’inizio diceva di volersi occupare di calcio, e non di politica, ha iniziato cambiare, e lo si è visto sempre più spesso circondato da capi di stato piuttosto che da calciatori. In Russia si era fatto fotografare, oltre che con Putin, con Nicolas Sarkozy e con Mohammad bin Salman, figura emergente nelle stanze del potere di Riad. Nonostante le accuse per le violazioni dei diritti umani in Russia, nel maggio 2019 Infantino si presentava al Cremlino a ricevere sorridente l’Ordine dell’Amicizia dalle mani di Putin, col quale si complimentava per aver organizzato “il più bel Mondiale di sempre”, per poi concludere con il motto nazionalista Slava Rossii (“Gloria alla Russia”). Nel frattempo, la Coppa del Mondo del 2026 era stata infine assegnata congiuntamente a Canada, Stati Uniti e Messico. Infantino aveva raggiunto Trump alla Casa Bianca poche settimane dopo per formalizzare la decisione, e aveva regalato al Presidente americano dei cartellini da arbitro: “Penso che potrebbero esserti utili. Il giallo è per mandare un avvertimento, il rosso è se vuoi cacciar fuori qualcuno”. Una frase sinistra, considerato che era stata detta a un politico che prometteva di deportare gli immigrati fuori dal paese. Trump aveva colto al volo l’opportunità, prendendo il cartellino rosso e mostrandolo orgoglioso verso i fotografi, scimmiottando un arbitro.

Se mai c’era stato un Infantino progressista, nell’agosto del 2018 era certamente svanito. La FIFA si era chiaramente risollevata a livello finanziario, ma questo era avvenuto grazie agli accordi di sponsorizzazione con multinazionali di stati eticamente molto discutibili. Nel maggio 2019 Infantino veniva confermato presidente e celebrava il suo primo mandato dicendo che in quei tre anni la FIFA era passata dall’essere “tossica, quasi criminale, a ciò che dovrebbe essere”, ovvero “un’organizzazione sinonimo di credibilità, fiducia, integrità, uguaglianza, diritti umani, impegno sociale, modernità”. Mentre diceva questo, migliaia di persone erano già morte di schiavitù nei cantieri del Mondiale in Qatar, altre erano state imprigionate senza processo e senza tutele legali, per il solo fatto di essere omosessuali o transessuali. E allora le parole del capo del calcio globale non contavano davvero più niente: non era certo il primo dirigente sportivo a intrattenersi con governanti autoritari e a chiudere un occhio davanti alle violazioni dei diritti umani, ma nessuno prima di quel momento era mai stato così irrispettosamente sfacciato.

Nel gennaio 2020, Infantino diventava il primo presidente della FIFA a parlare davanti al World Economic Forum, e in quel momento volle dedicare un pensiero al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Un autentico uomo di sport. Vuole competere e vuole vincere. Vuole dimostrare di essere il migliore. Dice ciò che molti pensano ma, soprattutto, fa ciò che dice”. Proprio in quei giorni, il Senato americano si stava preparando a discutere la prima proposta di impeachment contro Trump per le accuse di abuso di potere e di ostruzione al Congresso. La sua trasformazione nel Trump del calcio, Infantino l’ha completata nel discorso inaugurale dei Mondiali in Qatar, nel novembre 2022, un capolavoro di populismo in cui ha fatto propria tutta la retorica di chi lo criticava, l’ha masticata e l’ha risputata deformata, irriconoscibile e priva di senso. “Penso che per ciò che noi europei abbiamo fatto negli scorsi 3.000 anni dovremo scusarci per i prossimi 3.000, prima di dare lezioni morali” esordì, attaccando i difensori dei diritti umani. “Oggi mi sento qatariota, mi sento arabo, mi sento africano, mi sento omosessuale, mi sento disabile, mi sento un lavoratore migrante, mi sento una donna” scandì, enfatico, prima di aggiungere di sapere meglio di altri cosa significa essere discriminati perché “da bambino venivo bullizzato perché avevo i capelli rossi ed ero italiano”.

Nel marzo successivo, veniva nuovamente eletto presidente della FIFA, durante il Congresso tenutosi a Kigali, in casa di un altro governante autoritario come Paul Kagame. In quell’occasione rivelò che ciò che nel 2016 lo convinse a non abbandonare la corsa per la guida dell’organizzazione fu una visita al memoriale del genocidio del Ruanda: “So quello che questo paese ha sofferto, e come è riuscito a risollevarsi, signor Presidente [Kagame]. Così mi sono detto: ‘Chi sono io per arrendermi?'”. Che cos’è il populismo, se non il dissacrare la memoria di una delle più grandi tragedie della contemporaneità per farne uno strumento di propaganda, per blandire il pubblico e nobilitarsi? Altri quattro anni così, dunque, fino al 2027, con la certezza di aver assegnato di fatto altri due Mondiali: nel 2030 alla Spagna, al Portogallo e – soprattutto – alla monarchia assoluta del Marocco; nel 2034, infine, all’Arabia Saudita del suo vecchio amico Bin Salman, che nel frattempo dal settembre 2022 è anche Primo Ministro. L’assegnazione ufficiale avverrà solo il prossimo 11 dicembre, ma Infantino ha pilotato i percorsi delle candidature – specialmente quella del 2034 – in modo da arrivare alla data fatidica con un solo candidato per ciascuna edizione, in un grande trionfo della democrazia.

Nel gennaio 2022, Infantino disse che una Coppa del Mondo ogni due anni, invece che ogni quattro, potrebbe “salvare i migranti dalle morti in mare”. Pochi mesi dopo, a maggio, disse che i lavoratori migranti che avevano costruito gli stadi di Qatar 2022 dovevano essere orgogliosi di quanto fatto: “Quando dai lavoro a qualcuno, anche nelle condizioni più difficili, gli dai dignità e orgoglio”. Migliaia di persone sono morte, in quei cantieri, molte hanno dovuto vivere in condizioni atroci e in diversi casi sono stati denunciati stipendi non pagati.

Il 6 novembre 2024, Gianni Infantino è stato tra i primi leader globali a congratularsi pubblicamente con Donald Trump per la sua rielezione a Presidente degli Stati Uniti: “Avremo un grande Mondiale e un grande Mondiale per club negli USA! Il calcio unisce il mondo!”. Nei suoi otto anni alla guida della FIFA, Infantino non aveva mai celebrato l’elezione di nessun altro presidente o primo ministro. Ma d’altronde Trump avrà in casa tutti i più grandi eventi del calcio internazionale maschile organizzati dalla FIFA, compreso anche il torneo olimpico di Los Angeles, per il quale la FIFA collabora strettamente con il CIO. La finale del Mondiale del 2026 sarà in New Jersey, a sole 40 miglia da Bedminster, dove sorge la colossale tenuta che Trump ha adibito a golf club personale, e dove nel settembre 2018 aveva giocato proprio con Infantino. Il MetLife Stadium ospiterà anche la finale del Mondiale per club della prossima estate. Chi vincerà il torneo si metterà in bacheca un trofeo che reca il nome del presidente della FIFA scritto addirittura in due punti differenti. A quanto pare, il suggerimento di affidare il design della coppa a Tiffany sarebbe arrivato da Jared Kushner, il genero di Trump e amico di Infantino.

È indiscutibile che, sotto la sua presidenza, Infantino sia effettivamente riuscito a ricostruire l’immagine della FIFA: quella che era una grande organizzazione sportiva (in crisi) oggi è un attore di primo piano della diplomazia internazionale, che agisce come quella che nei fatti è la più vasta organizzazione politica al mondo (ha più membri dell’ONU). Ma, contrariamente al rispetto di cui gode negli ambienti politici, la FIFA è sempre più un alleato strategico dei peggiori regimi del pianeta: negli 86 anni che hanno preceduto l’elezione di Infantino, solo due Mondiali si erano tenuti in paesi non democratici (Italia 1934 e Argentina 1978), mentre negli ultimi otto anni se ne contano già due (Russia e Qatar), con il prossimo che si terrà principalmente sotto il governo autoritario di Trump (ricordiamo che non poche partite si terranno in Texas, dove l’aborto è illegale dal 2022), quello del 2030 coinvolgerà il regime del Marocco e quello del 2034 sarà interamente ospitato da quello saudita.

La FIFA non è mai stata certo un’organizzazione di santi e benefattori, e i tornei del 2018 e del 2022 erano stati assegnati prima della sua elezione a presidente, ma Infantino era stato descritto come l’uomo che doveva cambiare le cose – si era impegnato a farlo – e invece è rimasto sulla strada di Blatter, spingendo anzi sull’acceleratore. La FIFA odierna è più solida che mai, politicamente ed economicamente, ma al prezzo di essere divenuta a tutti gli effetti uno strumento di propaganda e sfruttamento dei più deboli. E non è solo questo: sono il linguaggio e la retorica di Infantino ad allarmare, il modo in cui sembra non avere la minima sensibilità o il minimo senso di vergogna, quando difende pubblicamente il proprio operato. Da questa prospettiva, è senza ombra di dubbio la migliore incarnazione della deriva della società occidentale contemporeanea, che indossa i propri valori come fossero accessori estetici e intanto scivola sempre più verso un feroce autoritarismo.

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4 pensieri riguardo “Come Infantino è diventato il Trump del calcio”

  1. Sulla tua conclusione sono d’accordo solo in parte: l’Europa, dal 1492 in poi, è sempre stata autoritaria. Semplicemente, fino ad un certo punto il suo autoritarismo lo rivolgeva all’esterno, mentre oggi rischia di volgerlo verso se stessa.

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