Nel febbraio del 1965, la televisione australiana e anche diversi giornali nazionali puntarono gli occhi su Moree, una cittadina della zona settentrionale del Nuovo Galles del Sud improvvisamente scossa da dei violenti scontri. Un gruppo di una trentina di studenti dell’Università di Sydney era arrivato in città, aveva raccolto alcuni ragazzi aborigeni della zona e aveva deciso di accompagnarli alla piscina locale: con un unico problema, ovvero che le leggi consentivano l’accesso solamente ai bianchi, e la brava gente di Moree aveva tutta l’intenzione di farle rispettare. L’attenzione del paese si concentra sui ragazzi che hanno organizzato la protesta: sono parte dell’associazione Student Action for Aborigines e stanno attraversando lo stato a bordo di un autobus per raccogliere informazioni e denunciare la segregazione razziale in Australia. A guidarli c’è un ex-calciatore di 29 anni, di nome Charlie Perkins.
Perkins era nato nel 1936 nella riserva dell’Alice Springs Telegraph Station, nel Territorio del Nord. Sua madre si chiamava Hetty, era una donna del popolo Aranda, nata nell’Australia Centrale da madre indigena e padre bianco, e successivamente trasferita nel Nord: aveva 40 anni, quando nacque Charlie, e altri otto figli avuti da tre uomini diversi. L’ultimo, il padre di Charlie, si chiamava Martin Connelly, figlio a sua volta di un irlandese e di una Kalkatungu, ma non tardò a sparire dalla circolazione. All’età di 9 anni soltanto, Charlie Perkins venne sottratto alla madre e mandato a vivere e studiare alla St. Francis School di Semaphore, vicino Adelaide, nell’Australia Meridionale, a oltre 1.500 km da Hetty. Era quello un destino comune dei ragazzi aborigeni: fin dall’inizio del secolo, le istituzioni australiane separavano sistematicamente i bambini dalle loro famiglie e li affidavano a istituzioni religiose, allo scopo di distruggere le culture indigene. Erano le cosiddette Stolen Generations.
Ma alla St. Francis School Perkins trovò anche il suo primo strumento di lotta e di emancipazione: il gioco del soccer. Marginalizzati negli sport dell’Australia bianca, come il football e il rugby, i giovani aborigeni potevano trovare conforto in quel gioco poco popolare, ma che verso la fine degli anni Quaranta stava iniziando a diffondersi lentamente nelle comunità degli immigrati europei, a loro volta emarginati in una società rigidamente anglosassone. Nel 1950 entrò nel Port Thistle, e l’anno successivo venne selezionato per rappresentare l’Australia Meridionale durante un match juniores. Ancora adolescente, si mise in mostra con vari club di Adelaide, vestendo le maglie dell’International United, del Budapest e della Fiorentina. Le sue qualità divennero così rinomate che, nel 1957, fu premiato con il titolo di Calciatore dell’anno dello stato, attirando l’interesse addirittura dell’Everton, che decise di ingaggiarlo per un provino. Perkins si trasferì così nel Regno Unito, diventando il secondo australiano a giocare in Inghilterra dopo Joe Marston, che tra il 1950 e il 1955 aveva militato nella difesa del Preston North End.
L’avventura a Liverpool era stata breve e poco felice. Perkins si manteneva con un lavoro ai cantieri navali e si allenava con la seconda squadra dei Toffees, ma non riuscì mai esordire nella formazione titolare. Dopo che l’allenatore della squadra riserve gli rivolse un insulto razzista, chiamandolo “Kangaroo bastard“, decise di andarsene, e si spostò a Bishop Auckland, una cittadina del Nord-Est inglese, a metà strada tra Newcastle e Middlesbrough. Qui trovò un nuovo lavoro e continuò a giocare a calcio nella squadra locale, che militava nelle serie dilettantistiche. Gli eventi che avevano accompagnato la sua giovane vita fino a quel punto avevano formato in lui una forte coscienza politica, portandolo a riflettere sulla segregazione razziale nel suo paese e sulle condizioni di vita degli aborigeni. Dopo una partita contro la squadra dell’Università di Oxford, decise che avrebbe dovuto fare ritorno in Australia e riprendere a studiare, perché la liberazione degli oppressi passa necessariamente dalla cultura e dall’istruzione. Rifiutò anche una proposta di un provino con il Manchester United, e fece nuovamente le valigie.

Per rientrare in Australia, Perkins trovò il sostegno dell’Adelaide Croatia, che gli offrì un posto da allenatore-giocatore, permettendogli di giocare al fianco di Gordon Briscoe e John Moriarty, più giovani di lui di un paio d’anni ma con cui era cresciuto alla St. Francis. Proprio come lui, erano entrambi giovani attivisti politici per i diritti degli aborigeni, e si erano impegnati nella creazione dell’Aboriginal Progress Association. Questo terzetto di giocatori, oltre a fare le fortune sportive dell’Adelaide Croatia, si unì fuori dal campo per portare avanti delle prime battaglie civili, ad esempio presentando una petizione al parlamento dello stato per chiedere il riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza agli aborigeni. Fino a quel momento, infatti, una persona di origini indigene non aveva diritto di voto e non veniva nemmeno conteggiata tra la popolazione australiana nei censimenti. Nel 1961, Charlie Perkins si spostò nuovamente, accettando di giocare per il Pan-Hellenic di Sydney: questa mossa gli consentì, in accordo col club, di potersi iscrivere alla locale università. Fu durante questo periodo che, assieme ad altri studenti, formò la Student Action for Aborigines e, prendendo ispirazione dal movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, organizzò la Freedom Ride del 1965.
A quel punto, dopo una breve esperienza nel Bankstown, Perkins aveva deciso di ritirarsi dal calcio e dedicare tutto il suo tempo allo studio e all’attivismo. La Freedom Ride si rivelò un grande successo, attirando per la prima volta l’interesse dell’opinione pubblica australiana sui diritti negati agli aborigeni, e aprì una stagione di intensa protesta politica. Nell’agosto dello stesso anno, Perkins inscenò il finto rapimento di Nancy Prasad, una bambina di 5 anni di origine indo-figiana: era arrivata in Australia pochi anni prima assieme al padre, che voleva ricongiungersi con i suoi figli maggiori, regolarmente stabilitisi nel paese. Sebbene avesse trovato un lavoro e aquistato delle proprietà a Sydney, il signor Prasad era stato rimpatriato nelle Figi, ma la figlia Nancy era rimasta in Australia perché, a causa di un’infenzione alla gola, era stata ricoverata in ospedale. Una volta guarita, i fratelli avevano cercato di farsela affidare per evitare il rimpatrio, ma le autorità erano state inflessibili e avevano emesso un ordine di deportazione per la bambina. Perkins e i suoi compagni inscenarono il rapimento al solo scopo di far scoppiare un caso mediatico, costringendo le persone a dover prendere coscienza delle assurde leggi australiane sull’immigrazione.
Nancy Prasad venne “liberata” la sera stessa, e rispedita dal padre nelle Figi, ma le polemiche generate dall’episodio spinsero la popolazione a chiedere una revisione della White Australia Policy. Nel 1966, intanto, Charlie Perkins diventava il primo aborigeno a laurearsi all’università, mentre continua il suo impegno per i diritti civili: un anno dopo, riuscì a convincere il governo liberale di Harold Holt a indire un referendum sull’inclusione degli aborigeni nei censimenti e per consentire al governo federale di legiferare sui diritti degli indigeni, scavalcando le generalmente più conservatrici leggi dei singoli stati. Il referendum registrò un’affluenza del 93,8%, e il Sì ricevette il 90,8% dei voti, ottenendo un risultato storico, soprattutto a livello simbolico, per i diritti della popolazione aborigena. Era il segno che qualcosa, nell’opinione pubblica australiana, stava cambiando: prima della fine del decennio, una serie di riforme avrebbero smantellato le leggi sulla sottrazione dei bambini indigeni alle loro famiglie, e infine nel 1972 i laburisti di Gough Whitlam tornavano a vincere le elezioni dopo 23 anni, con un programma costruito sul rispetto dei diritti delle minoranze e sull’ammorbidimento delle politiche migratorie.
Nel 1969, Charlie Perkins si trasferì di nuovo, stabilendosi nella capitale Canberra per lavorare presso l’Ufficio per gli Affari Aborigeni. La sua attività politica si faceva progressivamente più concreta: nei primi anni Settanta fondò l’Aboriginal Hostels Limited, un’azienda impegnata nella creazione di una rete di alloggi sparsi sul territorio nazionale e dedicati alle persone indigene, che subivano ancora discriminazioni nella vita quotidiana e che spesso avevano problemi a prendere in affitto degli appartamenti in cui vivere. Diresse poi l’Aboriginal Publications Foundation, un’organizzazione dedita alla diffusione della cultura indigena, che pubblicava in particolare la rivista Identity. Nel 1975, a soli 39 anni, aveva già vissuto molte vite: pioniere del calcio australiano, studente di successo, attivista politico. In quell’anno Perkins pubblicò quindi la sua autobiografia, un tributo alla lunga lotta per la giustizia per il suo popolo, A Bastard Like Me.

Nel 1984, dopo il ritorno al potere dei laburisti guidati da Bob Hawke, Charlie Perkins venne nominato a capo dell’Ufficio per gli Affari Aborigeni, divenendo il primo indigeno a capo di un ufficio pubblico in Australia. Nello stesso periodo, tornò brevemente anche al calcio, accettando di assumere la carica di presidente del Canberra City e poi quella di presidente dell’Australian Indoor Soccer Federation, che mantenne fino alla sua morte, avvenuta nel 2000. Gli furono tributati i funerali di stato, dopo i quali il suo corpo venne riportato ad Alice Springs, la terra in cui sua madre era stata costretta a trasferirsi da giovane e da cui poi lui era stato strappato ancora bambino. Alle esequie funebri sua nipote, l’attivista Pat Turner, usò le parole più semplici ed efficaci possibili per descrivere la sua vita: “Ha posto uno specchio davanti a questo paese”.
Il celebre giornalista John Farquharson lo descrisse come “non solo il più influente aborigeno dell’epoca moderna, ma uno dei più importanti australiani del secolo”. La sua eredità conta numerosi riconoscimenti, tra cui una canzone di Paul Kelly ispirata dalla sua vita, un istituto di ricerca medica a Sydney e, non ultimo, un posto nella Football Australia Hall of Fame. Johnny Warren, che fu un suo caro amico e che era stato il capitano della storica Nazionale australiana che prese parte ai Mondiali del 1974, ha detto di lui: “Ha fatto così tanto per così tanta gente che il fatto che sia anche parte della storia del calcio mi rende molto orgoglioso”.
“Il calcio, per me, ha avuto un triplice scopo. Il primo era quello di fornirmi i fondi necessari per studiare. Secondo, mi ha permesso di mantenermi in forma, perché passavo tante ore sui libri. Terzo, era il mezzo con cui potevo socializzare e divertirmi senza preoccupazioni.” – Charlie Perkins
Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.
Fonti
-GORMAN Joe, The Death & Life of Australian Soccer, University of Queensland Press
1 commento su “Charlie Perkins, da calciatore a difensore dei diritti degli aborigeni”