Per adesso è solo una voce, ma il fatto che a confermarla siano stati alcuni dei più importanti calciatori al mondo la rende abbastanza rilevante: se FIFA e UEFA non faranno marcia indietro sull’aumento delle partite stagionali, i giocatori potrebbero entrare in sciopero. Sotto accusa c’è soprattutto il nuovo Mondiale per Club (che è già in causa legale con FIFPro, il sindacato internazionale dei giocatori), ma pure il rinnovato format della Champions League è oggetto di critiche. Più partite significano più soldi per i club, e ancor di più per le grandi organizzazioni internazionali (FIFA e UEFA), ma l’aumento del numero di partite comporta anche rischi per la salute dei giocatori, che sono maggiormente soggetti a infortuni, oltre che a maggiore stress psicologico. Già questo dovrebbe bastare a capire perché uno sciopero sarebbe necessario: da un lato c’è chi prende decisioni unilaterali per accrescere i propri guadagni; dall’altro chi subisce queste decisioni e ci rimette in salute. Eppure non pochi tifosi, in questa diatriba, sembrano propendere maggiormente per la parte delle società invece che per quella dei calciatori.
Partiamo da una premessa: i calciatori sono una categoria largamente detestata (e al contempo molto amata, va da sé). Sono dei vip, molto giovani ma già miliardari, altezzosi e disinterssati a tutto ciò che non riguarda il loro lavoro, individualisti e priviliegiati. Si tratta ovviamente di uno stereotipo, che è peraltro relativo solo a un numero ristretto di giocatori (i professionisti di primissimo piano), ma molto ben radicato. Vanno inoltre considerati altre spetti che di solito si ignorano: un giocatore, anche non famoso, guadagna molto più di una persona normale (diciamo che, in Italia, 100.000 euro all’anno sono considerati uno stipendio basso per un calciatore professionista), ma lo fa solo per un brevissimo periodo della sua vita (indicativamente tra 20 e 35 anni, nel migliore dei casi). Dopodiché si ritrova costretto a dover cercare un nuovo lavoro, senza avere in genere alcune competenze o titoli di studio per fare altro all’infuori del calcio, un settore in cui però i ruoli disponibili (personale tecnico, dirigenziale, o da commentatore tv) sono pochissimi e alquanto precari. Vivere di rendita è molto complicato: dovresti aver fatto investimenti mirati, ma già non è semplice per chi lo fa di mestiere, immaginatevi farlo a 20 anni e senza nessuna conoscenza della finanza.
Negli scorsi giorni, quando le parole di Rodri del Manchester City su un possibile sciopero dei calciatori sono state riportate sui canali social di Pallonate in Faccia, hanno sollevato reazioni contrastanti. Diversi utenti hanno ribattuto che, se i calciatori vogliono giocare di meno, allora dovrebbero prima ridursi gli ingaggi. In questo ragionamento, che a molti appare perfettamente logico, si nasconde però un modo sbagliato di osservare gli equilibri economici del pallone. In primo luogo, non è vero che ci sia un legame diretto tra numero di partite e ammontare degli ingaggi. E ciò è abbastanza evidente: quest’anno, con la nuova Champions League, il numero di partite minime da giocare è aumentato, e il Mondiale per Club della prossima estate ne aggiungerà altre ancora; a fronte di questo aumento già certo, non c’è però stata una crescita automatica degli ingaggi dei giocatori che sicuramente saranno coinvolti in questi match extra. Spieghiamola ancora più semplice: siete dei calciatori; l’anno scorso avete firmato un contratto da 5 milioni all’anno, sapendo che avreste giocato circa 40 partite a stagione. Da quest’anno, però, le partite saranno 50 (ed è stata una decisione presa senza consultare voi, o i vostri colleghi o il sindacato di categoria), eppure il vostro stipendio è sempre di 5 milioni a stagione. Ora, voi non chiedete nemmeno un aumento proporzionale dell’ingaggio, ma una riduzione del numero di partite, per tornare alla situazione originale. E vi viene risposto che, sono volete tornare a giocare 40 partite all’anno, dovete accettare di guadagnare 4 milioni, e non più 5.
Si dovrebbe comprendere facilmente che questo ragionamento è profondamente perverso: prima il datore di lavoro aumenta il vostro carico di lavoro alle stesse condizioni contrattuali; quando protestate, vi si propone di tornare al carico originale ma a condizioni peggiori di prima. Qualcuno potrebbe obiettare che è sbagliato paragonare i calciatori miliardari con qualsiasi altro lavoratore, ma in realtà non è così: il tema in gioco sono i diritti che regolano il mondo del lavoro, e devono valere per tutti. Se non valgono per tutti, allora chiunque detenga maggiore potere contrattuale ha il diritto di decidere unilateralmente a chi riconoscere questi diritti e a chi no. In parole semplici: se i diritti del lavoro non valgono per tutti, il proprietario di un’azienda informatica può stabilire che allora non valgono nemmeno per i suoi dipendenti, che sono già ben pagati (a suo insadacabile giudizio) e che quindi devono accettare un aumento del loro carico di lavoro senza lamentarsi. Perché, se si lamentano, gli si può fare presente che ci sono categorie che stanno peggio di loro. È un livellamento al ribasso: solo chi sta peggio di tutti può protestare per i propri diritti (diritti che poi, tanto, gli verranno negati: quindi, niente diritti per nessuno e siamo tutti contenti).

Proviamo allora ad adottare una prospettiva “di classe”, per quanto in senso astratto. Questo concetto si basa su un’essenziale dialettica del conflitto: da un lato c’è chi possiede i mezzi di produzione, e dall’altro la forza lavoro, che presta il proprio corpo al funzionamento di questi mezzi di produzione, e permette di generare un guadagno. Nel calcio, i mezzi di produzione sono i club e, a un livello più alto, le competizioni, che funzionano grazie al lavoro prestato essenzialmente dai calciatori. Ecco perché chi dice che è sbagliato paragonare calciatore e operaio è completamente fuori strada, perché il confronto è tra due sistemi paralleli, tra due rapporti di forze: il proprietario del club sta al calciatore come il proprietario della fabbrica sta all’operaio. Ad alcuni certamente suonerà come un’eresia, eppure lo sosteneva già nel 1972 Patricio Manns, cantautore e scrittore cileno comunista, nel suo libro Grandes deportistas: “E a questa attività [il calcio, ndr] non manca il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Gli operai sono rappresentati dai giocatori; i padroni, dai club professionistici e dalla casta dei dirigenti”.
L’origine di questa incomprensione si deve al fatto che molti tifosi, anche – e, anzi, soprattutto – con idee di sinistra, confondono grossolanamente i rapporti in causa, ignorando quasi del tutto il ruolo dei club e degli organismi del calcio internazionale, e pensando che il conflitto sia tra calciatori e lavoratori comuni. Tra queste due categorie non esiste invece alcun tipo di rapporto, fuorché il fatto che alcuni dei secondi tifano per alcuni dei primi. Pagano i biglietti, ma non ai giocatori: ai club. Similarmente, pagano gli abbonamenti tv, ma ai grandi network. Questi soldi restano per la maggior parte nelle mani dei soggetti a cui vengono elargiti dai tifosi, e solo una frazione ridotta finisce nelle tasche dei giocatori. Non è assolutamente vero che i tifosi “pagano gli stipendi” ai giocatori. Per capirci meglio, immaginatevi di andare a comprare un frigorifero in un centro commerciale: se, tempo dopo, incontrate una persona che lavora per l’azienda che ha prodotto quel frigorifero, sosterreste di essere voi a pagare lo stipendio a quel lavoratore? Ovviamente no.
Una rilettura veloce di Karl Marx mette nuovamente in evidenza come la dialettica di classe si applichi correttamente anche al rapporto calciatori-club. In Salario, prezzo e profitto (una sorta di anticipazione de Il Capitale, uscita nel 1865), il filosofo tedesco scriveva: “Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri”. È difficile non ritrovare, in queste parole, alcuni dei problemi di cui oggi si lamentano i calciatori: l’impossibilità di avere pause dal lavoro (con il nuovo Mondiale per Club, molti non avranno un’estate libera fino al 2027, giocando a un ritmo di una partita ogni tre giorni per i prossimi tre anni, con un mese di sosta una volta ogni quattro anni), e il fatto di essere concepito unicamente come una macchina destianata ad aumentare i profitti dei club, della UEFA e della FIFA. La principale differenza, ovviamente, sta nel fatto che per fortuna del calciatore questo sfruttamento non sarebbe a vita, ma solo fino al ritiro (si potrebbe però aggiungere che un maggiore carico di lavoro, con un maggiore rischio di infortuni anche gravi, possa anticipare pure di molto la data del ritiro).
A questo punto, diventa necessario affrontare e sfatare un altro falso mito attorno alla questione: l’idea che il numero delle partite aumenti come conseguenza dell’aumento degli stipendi dei giocatori, colpevoli di spingere i club verso un pericoloso indebitamento. Che questa retorica sia artificiosa e fuorviante dovrebbe essere chiaro pensando al fatto che viene sistematicamente utilizzata in diversi altri ambiti lavorativi: l’aumento dei salari è indicato come un pericolo per la sopravvivenza delle aziende, per cui o si fanno dei tagli al personale, o si aumentano i turni per incrementare la produzione, o si delocalizza. Che i club di calcio siano indebitati è un fatto, ma che la colpa di questi debiti sia dei giocatori che prendono troppi soldi è abbastanza discutibile, nonostante un diffuso luogo comune vuole che i calciatori tengano “sotto scacco” le società. Si dice spesso che la fetta più grossa delle spese di un club è quella per i compensi dei giocatori, ma non è proprio così: la maggior parte delle spese riguarda le spese per il personale, inteso nel suo complesso. E anche se in questa categoria i giocatori rappresentano l’investimento maggiore, occorre fare alcune precisazioni.

Prendiamo ad esempio il caso dell’Inter. Nel suo bilancio chiuso a giugno 2023, il club nerazzurro dichiarava 226,9 milioni di euro di spese per il personale, di cui 142,9 milioni in stipendi per i giocatori e 16,3 per gli allenatori. Ma tra questi costi si ritrovano anche spese che si potrebbero considerare esagerate: 9,25 milioni lordi al 37enne Edin Džeko; 6,48 a Joaquín Correa, 4,63 a Robin Gosens e 2,22 a Dalbert, tre giocatori o poco impiegati o ritenuti non all’altezza del resto della squadra. E l’Inter, almeno in questi ultimi anni, è una delle società economicamente meglio gestite d’Italia (anche per ragioni di necessità, visti gli enormi debiti lasciati dalla gestione Suning). La maggior parte delle società di calcio europee vede levitare il proprio monte ingaggi per acquisti sbagliati, giocatori super-pagati che nel giro di un anno finiscono al margine delle rose, allenatori ingaggiati con grandi speranze e licenziati dopo pochi mesi (ma che restano a libro paga) e altri errori manageriali del genere. È così, per esempio, che il Manchester United, il club più ricco e stabile al mondo negli anni Duemila, è diventato oggi uno dei più pesantemente indebitati.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che nessuno obbliga i dirigenti dei club a offrire ai giocatori stipendi così alti o ad accettare le ingombranti commissioni degli agenti, divenuti i grandi nemici pubblici del calcio dopo che per decenni sono stati i migliori alleati delle società. Se le commissioni si sono impennate, è perché i ricchi club hanno deciso di pagare “quello che serviva” per convincere i procuratori a far accasare i loro protetti in un club invece che in quello avversario. Anche in questo caso, le origini del football forniscono un esempio utile a capire come si è generato questo mercato. Si dice che la Football League, il primo campionato al mondo, sia nato nel 1888 perché i club avevano bisogno di più partite stagionali (e quindi più incassi) per poter sostenere le spese degli stipendi dovute all’approvazione del professionismo, ma non è la prospettiva corretta in cui inquadrare gli eventi. Prima di tutto nacque la FA Cup: i club si arricchivano grazie ai biglietti delle partite, mentre i giocatori erano dilettanti. Alcuni di questi (tutti di estrazione operaia) iniziarono a pretendere una fetta dei guadagni dei club, e i proprietari delle società accettarono: chi pagava di più si assicurava i giocatori migliori. Tutto ciò avveniva sotto banco, fino a che non venne approvato ufficialmente il professionismo, e il diritto a venire pagati per il proprio lavoro iniziò a valere per tutti. Solo allora i club chiesero più partite, usando la scusa degli stipendi da pagare e del rischio della bancarotta.
La correlazione tra aumento degli stipendi e aumento delle partite, quindi, è completamente rovesciata: prima aumentano le partite (e i guadagni dei club), poi i compensi dei giocatori. A sostenerlo è addirittura la Bank of England, in un suo studio del 2019: “Ai giocatori vengono pagati stipendi sempre più alti perché i club guadagnano più soldi che mai”. E, appunto, i salari non crescono per gentile concessione delle società, ma per precise scelte commerciali, che però in molti casi si rivelano errate. Si parla tanto del fatto che oggi i club siano delle aziende, ma è vero solo in una minima parte: quale azienda investrebbe milioni in un nuovo progetto di sviluppo pluriennale, affidandolo a un manager di fiducia, per poi licenziarlo dopo circa tre mesi? Beh, è successo pochi giorni fa alla Roma, che adesso si ritrova a dover pagare, in questa stagione, oltre 7 milioni di euro lordi per De Rossi e Jurić. Se andate su Google e digitate “stipendi Milan”, troverete numerosi articoli che vi elencano le cifre nette e lorde di ogni giocatore rossonero. Dei contratti dei calciatori conosciamo ogni dettaglio, clausola e bonus. Ma provate a cercare quanto guadagnano Geoffrey Moncada, Giorgio Furlani o Zlatan Ibrahimović, i dirigenti responsabili delle scelte, giuste o sbagliate, da cui dipende lo stato sportivo ed economico dell’azienda Milan: non troverete nulla.
Il sistema dell’informazione calcistica è ossessionato dai guadagni di giocatori e allenatori, mentre dirigenti e proprietari sono descritti implicitamente come dei “volontari” al servizio del club, e non lavoratori a loro volta, con stipendi tutt’altro che umili. Questo contribuisce alla confusione sui rapporti socio-economici del calcio, facendoli risultare sproporzionati in favore dei calciatori. Le stime indicano che il giocatore più pagato del Chelsea, Reece James, guadagna 13 milioni di sterline lorde all’anno; non sappiamo bene quando gaudagni con il Chelsea Todd Boehly, che possiede la società, ma secondo Forbes il suo giro d’affari complessivo ammonta a 8,5 miliardi di dollari. Dovrebbe essere chiaro chi, tra i due, è il vero miliardario. Eppure la questione del possibile sciopero dei calciatori ha portato nuovamente ala luce una contraddizione nel modo in cui molti tifosi percepiscono queste dinamiche.

È comprensibile che una persona comune non possa pienamente identificarsi nelle rivendicazioni sindacali dei giocatori, vista la disparità economica, ma quasi sempre si fa un passo in più e si arriva apertamente a opporvisi, con la giustificazione di essere contro a nuovi privilegi per questa élite. Solo che, così facendo, si finisce inconsapevolmente per schierarsi dalla parte dei proprietari e dei dirigenti dei club, della UEFA e della FIFA, ovvero un’altra classe elitaria di privilegiati ancora più ricchi e potenti dei giocatori stessi, molto brava a farsi passare da vittima. “È solo calcio”, si dirà, ma invece non è così: siamo davanti purtroppo a un modo di ragionare che ritroviamo spesso quando si parla di diritto allo sciopero e dinamiche di lavoro: quando il pacco che stiamo aspettando tarda ad arrivare a causa di uno sciopero dei dipendenti di Amazon, ce la prendiamo con questi ultimi, e non con un’azienda da 470 miliardi di dollari annuali di fatturato che non vuole garantire condizioni di lavoro dignitose.
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Quanto scrivi sui manager è inappuntabile… e per altro vale anche fuori dal calcio. Per il resto, però, non sono del tutto d’accordo: vero che i calciatori sono lavoro salariato, ma è un lavoro salariato con un salario tale (e proveniente da così tante fonti) da renderli dei casi sui generis; almeno per i calciatori di più alto livello, non parliamo di lavoro, ma di un’azienda che fattura di per se. Se, invece, scendiamo a livello dei comprimari, è giusto e sacrosanto quanto dici, soprattutto perché mi sembra che ormai a livello del calcio (come in tutto, ahimè) manchi la solidarietà tra chi ha di più e chi ha di meno.
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