Il calciatore che divenne Premio Nobel

“Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e sulle scene del teatro, che resteranno le mie vere università.”

Albert Camus

Quando Jacques Cormery torna in Algeria, il paese dov’è cresciuto, si ritrova a camminare tra i ricordi e le tensioni di un paese che sta esplodendo. C’è il presente della guerra d’indipendenza e c’è il passato di un ragazzo che proviene da due mondi, bianco e figlio dei coloni pieds-noirs ma tutt’altro che benestante e privilegiato come vorrebbe lo stereotipo. E poi c’è il calcio, la viscerale passione che ha attraversato la sua infanzia, sui campi improvvisati di Algeri, tra berberi, arabi ed europei. La sua storia è destinata a rimanere sconosciuta fino al 1994, quando finalmente viene pubblicata da Gallimard, a 34 anni dalla morte del suo autore, Albert Camus. Jacques è l’alter-ego di Camus, l’ultimo testimone della sua vita, che l’autore rimette in scena su carta così come spesso aveva fatto mettere in scena a teatro altre sue opere. Il romanzo che racchiude tutta questa vicenda, Il primo uomo, non è mai stato concluso e in pochi sapevano che Camus lo stava scrivendo, quando il manoscritto venne ritrovato tra i rottami di una Facel Vega FV3B accartocciatasi contro un platano nei pressi di Villeblevin, sulla strada per Parigi. È il 4 gennaio 1960, ed è morto il premio Nobel Albert Camus, scrittore e attivista politico di soli 49 anni.

Era nato nell’Algeria ai tempi della dominazione francese, padre originario di Bordeaux e madre delle Baleari, ma era cresciuto quasi come un orfano. Il padre era morto nella battaglia della Marna, durante la Grande Guerra, e Camus era venuto su sotto il severo controllo nella nonna materna, in una famiglia molto povera. Giocare a pallone era l’unico modo per sfuggire a quella prigione, e durante l’adolescenza scoprì anche di essere un discreto portiere. Una passione duramente osteggiata dalla nonna, preoccupata dal probabile danneggiamento delle costose scarpe del nipote. Queste qualità lo condussero a difendere i pali della squadra giovanile del Racing Universitaire d’Alger, noto più semplicemente come RUA, nel periodo in cui era andato a studiare al Grand Lycée. Come molti francesi d’Algeria, tifava RUA, che era nato solo nel 1927 ma che in breve tempo si era affermato come la squadra dei pieds-noirs, e degli studenti in particolare, che avrebbe poi vissuto un periodo d’oro negli anni Trenta. Un periodo di cui Camus avrebbe anche potuto fare parte, se il destino non l’avesse spinto altrove.

Nel 1930, quando aveva appena 17 anni, era stato costretto a un breve ricovero presso l’ospedale Mustapha Pacha, dopo che si era ritrovato a tossire sangue: i medici gli diagnosticarono la tubercolosi, e gli proibirono di continuare a giocare a calcio. La sua vita si allontanò dai pali e finì per concentrarsi sui libri – in particolare di filosofia, l’altra sua grande passione – e sempre più di frequente sulla politica. Ma per tutta la vita avrebbe portato dentro di sé il rammarico per aver dovuto rinunciare alla vita da calciatore, diventando invece un intellettuale. Un paradosso, che ha probabilmente plasmato nel profondo la sensibilità di Camus: il suo esistenzialismo, connotato dall’assurdità dell’esistenza umana che lui paragonava a quella di Sisifo, ben si sposa con la storia di un ragazzo che avrebbe preferito fare il portiere in una piccola squadra piuttosto che vincere un Nobel, e che per sempre avrebbe ritenuto di aver appreso più cose sui campi di calcio che nelle prestigiose scuole frequentate. Da lì in avanti, Camus si sarebbe sempre sentito fuori posto in qualunque luogo e circostanza, uno sradicato – francese in Algeria e poi algerino in Francia, pensatore di sinistra ma anarchico e abituato ad andare controcorrente – che si trovava a suo agio solo allo stadio, il luogo che lo riportava alla libertà e alla spensieratezza dell’adolescenza.

Quello seduto per terra, con la divisa da portiere e il berretto in testa, è Albert Camus.

Iniziò a lavorare come giornalista, mentre militava nelle fila del Partito Comunista algerino e abbracciava la causa anticolonialista, fino a che nel 1940 non si trasferì a Parigi, dove presto venne assunto come insegnante e si ritrovò allora ad allenare la squadra di calcio della scuola. Continuava a seguire il RUA a distanza, leggendo i risutati delle partite che arrivavano dall’Algeria, e nel frattempo si avvicinò, per necessità di tifoso appassionato, al Racing Club di Parigi, che aveva la stessa maglia della sua squadra del cuore. Il calcio era sempre intessuto nei suoi pensieri e nella sua scrittura: ne La peste, il romanzo che pubblicò nel 1947, è un elemento ricorrente nei dialoghi tra il giovane giornalista francese Raymond Rambert e il contrabbandiere ispano-algerino Gonzales, nella Orano piagata dalla peste. Rambert, che vuole lasciare la città per ricongiungersi alla donna amata in Francia, si affida a Gonzales per organizzare il viaggio clandestino, quando scopre che il contrabbandiere era stato un discreto calciatore negli anni giovanili. Un po’ come Joseph Alcazar, attaccante dell’Olympique Marsiglia che veniva proprio da Orano, o come l’omonimo Joseph Gonzales, anche lui dell’OM ma di ruolo difensore. Davanti a un’inconveniente che costringe a rimandare il viaggio, Gonzales commenta: “Non è nulla, pensa a tutte le combinazioni, le discese e i passaggi che bisogna fare prima di segnare un punto”. E preoccupato Rambert risponde: “Sì, certo, ma la partita non dura che un’ora e mezzo…”.

Quel romanzo diede a Camus grande fama, rivelandosi un successo tanto di pubblico quanto di critica. Iniziò a girare il mondo per parlare di letteratura e filosofia (ma anche di politica, negli anni in cui criticava con sempre maggior convinzione il regime sovietico), e tra questi viaggi arrivò anche in Brasile, dove venne invitato a vedere una partita allo stadio. Scoppiò la guerra d’Algeria, e fu fin da subito un sostenitore della causa indipedentista, pur essendo un bianco. Vide il Racing Club vincere la Coppa di Francia nel 1949 e poi di nuovo raggiungere la finale l’anno successivo. Nel 1956 pubblicò La caduta, tornando a dare voce alla sua passione per il calcio attraverso i pensieri del protagonista, l’avvocato parigino Jean-Baptiste Clamence. “Ancora oggi le partite della domenica in uno stadio affollato e il palco di un teatro, che ho amato con una passione senza pari, sono gli unici posti al mondo in cui mi sento innocente” dice Jean-Baptiste, riportando alla luce lo stadio come luogo del cuore in cui Camus ritrovava il suo posto nel mondo. All’apice della fama, nel 1953, era stato contattato dal RUA per scrivere un articolo sul magazine del club, rievocando i suoi anni da calciatore: “Quello che sicuramente so a lungo termine sulla moralità e sui doveri degli uomini, l’ho imparato al RUA” scrisse.

Quando nell’ottobre 1957, a soli 43 anni, l’Accademia di Svezia gli comunicò l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura, la televisione francese lo volle ovviamente intervistare, e Camus scelse di realizzare l’intervista in uno scenario decisamente insolito: allo stadio. Il 20 ottobre, si trovò accanto al giornalista e al cameraman della tv in mezzo alle 33.000 persone dello Stade de Colombes, per assistere a una partita di campionato tra il Racing Club allenato da Auguste Jordan e il Monaco di Ben Tifour, Glovacki e Hidalgo. Quando la squadra di casa subì un gol evitabilissimo a causa di un’indecisione del suo numero uno André Pivois, il giornalista chiese a Camus un commento sull’errore del giocatore: “Non gliene va fatta una colpa. Quando si è tra i pali ci si accorge di quanto è difficile”. La sua passione per il pallone era ormai nota, al punto che anche France Football gli chiese un articolo per il numero di dicembre, che andava ad arricchire l’uscita dedicata ad Alfredo Di Stéfano, il nuovo vincitore del Pallone d’Oro.

È un pezzo sul calcio e il suo rapporto con il RUA, ma a ben vedere Camus ha scritto un altro capitolo della sua produzione letteraria, probabilmente il meno conosciuto e studiato dai critici. Un memoire sul gioco e sul tifo, in cui lo scrittore spiega quel legame inestricabile con il calcio, anche ad anni di distanza: “Dopotutto è per questo che ho amato tanto la mia squadra, per la gioia delle vittorie così meravigliosa se unita alla fatica che ne consegue, ma anche per questa stupida voglia di piangere nelle serate di sconfitta”. Tifare è un’esperienza esistenzialista, significa spingere sempre quel masso su per la collina e tenersi pronti a ricominciare subito dopo aver raggiunto la vetta, ogni volta daccapo e senza sosta, ma a nostra volta spinti da un’energia che non capiamo. E, alla fine, nel suo articolo Camus parla soprattutto del calcio come luogo spirituale in cui albergano i suoi anni giovanili: continua a tifare per non smarrire la sua gioventù e tutti quei sentimenti che sono forse alla base del senso della vita. E invita i suoi lettori a fare altrettanto: “Custoditela per noi. Custodite per noi questa grande e buona immagine della nostra adolescenza. Lei veglierà sulla vostra”. Tifare significa, in definitiva, essere custodi della giovinezza di chi c’è stato prima di noi.

Il numero di France Football del 17 dicembre 1957: in copertina il Pallone d’Oro Alfredo Di Stéfano, e poi l’articolo di Camus.

A quell’epoca dorata, Albert Camus tornò nel 1959, quando iniziò a scrivere Il primo uomo e a raccontare attraverso gli occhi di Jacques Cormery la vita di un ragazzino franco-algerino appassionato di pallone, lo sport che “sarebbe stato per tanti anni la sua passione”. Risale allo stesso anno un altro testo, in cui l’autore approfondisce il suo amore per il teatro, Pourquoi je fais du théâtre, da cui proviene la più famosa delle citazioni di Camus sul calcio, che assieme al palcoscenico fu l’unica vera università che sentiva di aver frequentato. Lo sport come scuola morale è un concetto centrale ne Il primo uomo, con i ricordi di Jacques delle partite senza arbitri giocate sul cemento del cortile della scuola, in cui le gerarchie che si creavano a seconda dei voti che uno prendeva non contavano più, e tutti si dovevano rimettere in gioco, dai primi agli ultimi della classe. Bisognava confrontarsi “da pari a pari con i migliori allievi” e imparare a “farsi rispettare e amare anche dai peggiori, che spesso avevano avuto in dono dal cielo, se non sale in zucca, gambe vigorose e un fiato inesauribile”.

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Fonti

COCO Lucio, Quando Albert Camus faceva il portiere, L’Osservatore Romano

MITCHELL Andy, The morality of football and the philosophy of Albert Camus, Scottish Sport History

OWEN M. M., How Albert Camus found solace in the absurdity of football, The Independent

1 commento su “Il calciatore che divenne Premio Nobel”

  1. Sapevo che Camus era stato calciatore e che aveva rischiato di farne una professione, ma ignoravo che avesse continuato a manifestare questa passione fino al punto di farsi intervistare allo stadio. Avremmo guadagnato forse un buon portiere, ma avremmo perso uno straordinario scrittore: quando ho letto “La peste” ne sono stato folgorato, ed ho trovato le sue riflessioni sull’essere medico così centrate che sono andato a vedere se, per caso, non avesse studiato medicina (ed è così che ho scoperto del suo passato di calciatore).

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