C’era una squadra che incantava l’Europa, nei primi anni Ottanta, e di cui fino a poco tempo prima nessuno o quasi aveva mai sentito parlare. Era l’IFK Göteborg, che dopo un decennio di sostanziale anonimato era arrivato a dominare non solo il calcio svedese, ma addirittura a farsi notare a livello internazionale. Nel 1980 aveva vinto la Coppa Intertoto, e nel 1982 era arrivato addirittura a conquistare una storica Coppa UEFA. Merito del suo allenatore, un ragazzo di appena 34 anni di nome Sven-Göran Eriksson, ex-difensore di basso livello ma allenatore brillante, con una venerazione per il calcio inglese. Il suo Göteborg giocava bene e in maniera aggressiva e moderna, e così era arrivato a sorprendere squadre ben più quotate, come il Valencia, il Kaiserslautern e l’Amburgo. In campo brillavano attaccanti come Torbjörn Nilsson e Dan Corneliusson, mentre a centrocampo faceva bella figura Glenn Strömberg. Ma la forza dell’IFK era sulle fasce, a partire dai due terzini: Glenn Hysén a sinistra, e a destra Ruben Svensson, detto Den Röde (“il Rosso”), non per il colore dei capelli, ma per quello politico.
Svensson era cresciuto ad Hagfors, una cittadina lacustre nella regione del Värmland che si era sviluppata interamente attorno alle acciaierie. Era un luogo molto particolare, fatto di poche case eleganti sulle rive del lago, alle cui spalle sorgevano le ben più numerose abitazioni dei proletari, e più procedevi verso l’interno più i quartieri che attraversavi diventavano poveri. La famiglia di Ruben Svensson apparteneva alla prima categoria: suo padre era ingegnere capo dell’acciaieria, e aveva permesso ai figli di ricevere un’ottima educazione e di poter avere un buon lavoro. Ruben scelse, invece, di giocare a calcio, così da ragazzo si trasferì lontano da casa, andando a giocare nel BK Derby di Linköping, con cui nel 1976 ottenne la promozione nella massima divisione svedese. Ma soprattutto, a differenzialo ancor di più dal padre e dall’ambiente in cui era cresciuto, c’era il fatto che Ruben Svensson era comunista.
La sua prima stagione nella massima serie gli permise di mettersi in mostra come un giocatore piuttosto promettente, ricevendo così la chiamata dell’IFK Göteborg. A livello puramente sportivo, si trattava di un salto in una squadra abbastanza blasonata del calcio svedese, ma a livello di carriera Svensson avrebbe potuto guadagnare di più se avesse accettato il trasferimento all’AIK Solna. Aveva volutamente preferito il Göteborg perché la squadra era composta prevalentemente da persone che si mantenevano facendo altri lavori (l’unico professionista era Nilsson, reduce da una breve esperienza nel PSV Eindhoven), e nella nuova città lui trovò anche alcuni contatti con la redazione di Proletären, il giornale del Partito Comunista svedese, per cui iniziò a scrivere alcuni articoli. Il Kommunistiska Partiet era una piccola formazione marxista-leninista, popolare soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione, che si collocava a sinistra dei socialdemocratici di Olof Palme, in quel momento la principale forza di opposizione in Svezia.
Tutti sapevano che era di sinistra, perché non era uno che teneva a freno la lingua, quando si trattava di parlare di politica. Nell’estate del 1978 la Nazionale svedese era andata in Argentina a giocare i Mondiali, in un momento in cui nel paese c’era una forte contestazione verso la giunta militare di Videla, soprattutto per il caso di Dagmar Hagelin, una diciassettenne svedese scomparsa nel nulla mentre si trovava a Buenos Aires. Incalzato dai media sulla questione dei diritti umani nel paese sudamericano, dopo il suo arrivo in Argentina il ct Aby Ericsson rispose polemicamente in conferenza stampa che non aveva visto alcun cadavere per le strade, e che la situazione gli sembrava tranquilla e ordinata. “Ericsson capirà anche molto di calcio, – commentò pubblicamente Svensson – ma non ha la più pallida idea di cosa sia la politica”. Il terzino del Göteborg, all’epoca 25enne, ai Mondiali non era stato convocato: in tutta la sua carriera, non avrebbe mai vestito la maglia della Svezia, secondo alcuni perché le sue idee politiche erano viste con sospetto e fastidio, negli ambienti del pallone.

In realtà, erano tanti i calciatori nel paese, all’epoca, a interessarsi di ciò che accadeva nel mondo, e se pochi erano comunisti molti di più erano i socialdemocratici, soprattutto nel Göteborg. “Con Eriksson facevamo un autentico calcio di sinistra. – ha raccontato Svensson anni dopo – Costruivamo tutto insieme, da vera squadra. La sua filosofia si basava sul fatto che ci fosse sempre qualcuno dietro di te a guardarti le spalle: così puoi prenderti dei rischi. È lo stesso se parliamo di una squadra di calcio, di un’impresa o della società nel suo complesso: ovviamente l’individuo deve essere incluso, ma il collettivo è la cosa più importante. Ci si aiuta a vicenda e si lavora insieme, sia in difesa che in attacco. Vorrei che anche la società fosse così, che si lavorasse molto di più insieme”. Svensson rimase all’IFK Göteborg fino al 1986, giocando nelle due storiche semifinali di Coppa dei Campioni contro il Barcellona, quando in panchina era arrivato Gunder Bengtsson, che un anno dopo avrebbe poi portato gli svedesi a vincere la loro seconda Coppa UEFA.
Dopo il ritiro dal calcio giocato, sancito nel 1987 al termine di una stagione con la maglia del Västra Frölunda, Röde Ruben si dedicò per un po’ alla carriera da allenatore, tornando all’IFK. Poi, dal 2001, è diventato educatore nella scuola di Hjällbo, un quartiere alla periferia nord-est di Göteborg, conosciuto per l’alta percentuale di immigrati e per seri problemi di disoccupazione: “Non possiamo abbandonare questi ragazzi. – spiegava nel 2018 in un’intervista con Proletären – La probabilità che finiscano nella criminalità è altissima, se non riescono ad andare avanti con gli studi”. Ai media svedesi, di recente ha raccontato di non essersi mai sentito un rivoluzionario e di non essere mai stato davvero attivo politicamente: “Più che altro, ero uno che aveva delle opinioni”. Racconta che era stata soprattutto la polemica con Aby Ericsson a valergli il soprannome di “Rosso”, ma che tutto sommato gli era sempre andato a genio.
Oggi, Ruben Svensson è in pensione, ma non ha smesso di avere opinioni politiche molto precise. “Un tempo era molto più chiaro per la gente che i partiti di destra erano per chi aveva molti soldi. Ma ora i partiti si sono avvicinati tra loro. Ci sono ancora chiare differenze, ma quelli di destra presentano le loro politiche in modo molto più intelligente e aggressivo” ha detto nel 2018, commentando l’ascesa della formazione neofascista Democratici Svedesi, che alle elezioni di quattro anni prima aveva conquistato uno storico 7,2% dei voti. “Molte persone credono che bastino più agenti di polizia per risolvere i problemi e, quando si parla di criminalità, molti presumono che non siano gli svedesi, ma solo gli altri, a commettere i reati. Ci sono cose che non funzionano nella politica migratoria, ma chi accusa costantemente solo chi proviene da altri paesi, o chi ha genitori che provengono da altri paesi, non ha idea di come sia la realtà”.
In un’altra intervista, Svensson ha raccontato di vivere bene con la sua pensione, ma che è comunque modesta, non essendo mai stato a tutti gli effetti un calciatore professionista. E, ad ogni modo, ha ricordato che c’è chi si trova in condizioni sensibilmente peggiori delle sue: “Un quinto dei pensionati svedesi vive al di sotto della soglia di povertà dell’UE. E il loro numero è in aumento, perché le pensioni per le nuove generazioni non faranno che peggiorare, se il sistema non cambia. Stiamo parlando di persone che hanno lavorato per quarant’anni e ricevono una pensione davvero misera”. La sua idea è che tutto il sistema pensionistico andrebbe rivisto: l’età per lasciare il lavoro dovrebbe essere più bassa, soprattutto per chi ha svolto lavori fisicamente usuranti. “Deve funzionare in modo da non essere completamente esausti al momento della pensione, dovresti essere ancora in buona salute e con tanti anni di vita ancora davanti”.

L’immigrazione, la criminalità, l’insicurezza economica e il problema delle pensioni: “Così facile per i razzisti dire che l’origine di tutto è che accettiamo molte persone da altri paesi che non lavorano e ci costano dei soldi. Ma non è vero”. A quasi 72 anni, Ruben Svensson ha ancora una visione politica lucida, in un mondo in cui sempre meno sportivi prendono posizione sulle tematiche sociali. “Credo sia una cosa un po’ strana. Cosa c’è di così pericoloso nell’esprimere le proprie opinioni? Viviamo in una democrazia”. Nel documentario del 2011 Fotbollens sista proletärer (“Gli ultimi proletari del calcio”, dedicato al suo IFK Göteborg), ha confessato di non credere in una società come quella di oggi, e di continuare a pensare che solo il lavoro di gruppo possa migliorare le persone e il mondo in cui vivono. “Dobbiamo andare verso un mondo più equo, dove tutto venga condiviso di più rispetto a oggi”.
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Fonti
–“Det är fan så mycket bättre än att kallas Blåe Ruben”, Aftonbladet
–JÖNSSON Marcus, Högerbacken med hjärtat till vänster, Proletären
–LINDWALL Oskar, Blåvitt-ikonens fruktan – för att bli fattigpensionär, Expressen
-PEINADO Quique, Calciatori di sinistra, Isbn Edizioni