Lunedì, con la notizia del passaggio di Sergej Milinković-Savić all’Al-Hilal, l’Arabia Saudita si è ripresa le prime pagine dei giornali sportivi italiani, riproponendo una domanda a cui si era già provato a rispondere: sarà lì il futuro del calcio, e non più in Europa? Da un lato abbiamo i catastrofisti, secondo cui ormai la vecchia Europa è finita e tra qualche anno finiremo a guardare su Sky i grandi campioni che giocano nella Saudi Pro League. Dall’altro, gli iper-ottismisti, secondo cui la bolla saudita è destinata a scoppiare come quella cinese (e come molte altre che abbiamo visto in precedenza, a dire il vero). Su quest’ultimo punto vale la pena fare qualche riflessione aggiuntiva, cercando di mettere in ordine similitudini e differenze, ma soprattutto ragionando in maniera equilibrata.
Partiamo da un assunto molto semplice: l’Arabia Saudita non sarà come la Cina. Come del resto la Cina non fu come il Qatar, che a sua volta non era stato come il Giappone, che poi non era stato come gli Stati Uniti degli anni Settanta, e così via. Ogni caso fa storia a sé, e la lettura del passato non consente mai di fare realmente previsioni attendibili sul futuro: la Storia non è una scienza fatta di esperimenti replicabili in laboratorio in situazioni controllate. Tuttavia, sulle differenze tra Arabia Saudita e Cina qualcosa di più si può dire, per inquadrare meglio la situazione. In realtà, però, è meglio partire prima dalle somiglianze, perché non è solo una ragione di vicinanza temporale se la lega saudita viene costantemente messa a confronto con quella cinese. Entrambe condividono le ambizioni, ben evidenti nella capacità di portare nel proprio campionato non solo vecchie glorie prossime al ritiro (come avevano fatto Stati Uniti, Giappone e Qatar), ma anche giocatori di rilievo nel pieno della carriera. Per la Chinese Super League furono Oscar, Witsel e Ferreira Carrasco, mentre per la Saudi Pro League si tratta per ora di Ruben Neves e Milinković-Savić.
Dopodiché è ovvio che le differenze specifiche ci sono. L’esperimento di Pechino è stato più simile alla NASL americana: una moda passeggera sostenuta da pesanti investimenti del settore privato, che miravano a costruire rapidamente e quasi dal nulla una tradizione sportiva e commerciale. Il suo fallimento fu dovuto al fatto che il pubblico cinese, massicciamente interessato al calcio europeo (ce lo dice il mercato dei diritti tv), non riuscì mai ad appassionarsi allo stesso modo a quello locale. I primi grandi acquisti crearono un entusiasmo che però durò relativamente poco, e il motivo è stato anche dovuto al tipo di giocatori acquistati: nessuno vero grande nome, ma molti giocatori che, per quanto bravi e famosi, erano comunque fuori dalla vera élite del calcio globale. Per capirci: il grande colpo fu Oscar, non Neymar. Per contro, la NASL nordamericana prendeva Pelé, Cruijff e Beckenbauer. Si legge spesso che è stato il Covid-19 a segnare la fine dei sogni di gloria del campionato cinese, ma in realtà la crisi iniziò ben prima, con un brusco cambio della politica di Pechino. Paulinho tornò in Europa, al Barcellona, già nell’estate del 2017, mentre Witsel passò al Borussia Dortmund un anno dopo.
Rispetto alla NASL, però, gli imprenditori privati cinesi erano tutti legati al governo, creando una sorta di sistema ibrido privato-statale. Da questo punto di vista, la Saudi Pro League è espressamente un sistema statale, il che lo rende più “stabile” rispetto al precedente dell’Estremo Oriente. Tutto ciò che stiamo vedendo in questi giorni è nelle mani di un unico soggetto, il celebre PIF, il fondo sovrano di Riad, vale a dire il fondo sovrano più ricco del mondo. Stiamo quindi parlando di una sorta di grande azienda statale che ha una disponibilità economica di molto superiore a quella dei club cinesi, e che quindi non dovrebbe andare incontro agli stessi problemi di liquidità visti negli anni scorsi nella Chinese Super League. In più, c’è una grande differenza di cultura calcistica: l’Arabia Saudita partecipa ai Mondiali quasi ininterrottamente dal 1994 (la Cina ci è riuscita un’unica volta, nel 2002), è un paese di quasi 36 milioni di abitanti in cui da decenni il calcio è lo sport più seguito. Si tratta quindi di qualcosa di molto diverso anche dal caso del Qatar, in cui il pubblico era ristretto a un piccolo gruppo di facoltosi cittadini, peraltro di un paese minuscolo e sottopopolato.

Quindi, l’Arabia Saudita non sarà come la Cina per via di una maggiore disponibilità di denaro, un maggiore controllo sugli investimenti, e una più solida tradizione sia in termini di praticanti che di pubblico. Tutto ciò lascia pensare che Riad sia destinata a soppiantare davvero l’Europa nel predominio del calcio globale, o perlomeno ad affiancarla, ma il caso saudita presenta anche delle criticità, spesso connaturate anche ai suoi presunti punti di forza. Abbiamo detto che tutto dipende dal PIF, ma in realtà il vertice della piramide è, ancora più precisamente, Mohammad bin Salman, presidente del fondo, Primo Ministro ed erede al trono. È lui il grande appassionato di calcio della famiglia Al Sa’ud, colui che sta dirigendo molti investimenti pubblici in questa direzione, acquistando club nel campionato locale e all’estero (il Newcastle). Il che significa che, per quanto ne sappiamo oggi, l’intero progetto saudita per il calcio è vincolato a lui e alle sue fortune personali e politiche. L’Arabia Saudita è un paese politicamente molto stabile (eufemismo per dire che è una dittatura brutale), il che rende difficile che qualcuno possa intaccare il potere di Bin Salman. Ma basterebbe davvero poco (banalmente, anche solo un mutamento nei suoi interessi personali) per far saltare il banco.
Esiste poi anche una largamente sottovalutata questione economica. Si è diffusa la credenza secondo cui l’Arabia Saudita abbia “soldi infiniti”, probabilmente figlia inconsapevole di un antico stereotipo europeo verso gli arabi che affonda le sue radici in storie come quella di Alì Babà e i 40 ladroni [questo passaggio è stato scritto lunedì 10 luglio: il giorno dopo, la prima pagina del Corriere dello Sport ha paragonato letteralmente i sauditi ad Alì Babà]. I fondi del PIF sono tutt’altro che infiniti, e soprattutto nessuno, tantomeno i sauditi di oggi, è disposto a buttare via grandi quantità di denaro solo per il gusto di farlo. Tutti questi investimenti sono focalizzati all’ormai arcinoto progetto Vision 2030, attraverso cui l’Arabia Saudita punta a rendersi indipendente dalla produzione dei combustibili fossili, orientandosi all’economia finanziaria e al turismo. Il calcio è una parte integrante di questa strategia, ma non è scritto negli astri che debba avere necessariamente successo. Le stelle in arrivo a Riad basteranno a rendere la Saudi Pro League appetibile per il pubblico non solo locale ma anche internazionale, generando importanti introiti dai diritti televisivi? Riusciranno a convincere importanti sponsor stranieri a investire anche nel sistema economico saudita, più di quanto non farebbero adesso? Migliorerà realmente l’immagine del paese davanti al resto del mondo, come sono riusciti a fare in passato, anche se non attraverso lo sport, gli Emirati Arabi Uniti? Queste sono le domande di cui nessuno si sta occupando, accontentandosi di una più comoda narrazione.
Se queste cose non accadranno nel giro di qualche anno, non è detto che simili spese nel calcio verranno confermate. Il Qatar insegna: i ricchi acquisti dei primi anni Duemila servirono ad attirare l’attenzione sul calcio locale e a spianare la strada per l’assegnazione dei Mondiali, avvenuta a fine 2010. Dopodiché, gli investimenti si ridimensionarono, non essendo più necessari al progetto di Doha. Milinković-Savić verrà decisamente supervalutato (20 milioni di euro netti a stagione è più di quanto prende Grealish al Manchester City, una cifra che il serbo non potrà mai guadagnare nel mercato europeo), ma questo investimento ha lo scopo di cambiare la percezione che il resto del mondo (e dei calciatori) ha del campionato saudita, rendendo possibile in futuro altri trasferimenti di giocatori del suo livello. Ogni colpo di mercato muta il mondo che gli sta attorno, alzando la barra dello standard e rendendone implicitamente possibili altri. L’obiettivo sul lungo periodo, però, è presumibilmente quello di portare il torneo a uno status tale da non dover più mettere sul tavolo 20 milioni a stagione per un Milinković-Savić, ma magari solo 10, perché nel frattempo sarà diventato più plausibile per un calciatore del genere accettare un trasferimento in Arabia Saudita. Proprio perché il progetto saudita è ampio e molto ambizioso, e lo sport è il mezzo, non il fine, che si vuole raggiungere, se dovesse rivelarsi inadeguato o controproducente, non c’è motivo per cui non possa essere abbandonato per dedicarsi a investimenti più proficui e necessari per il paese.
In ultimo, attenzione a non mitizzare troppo anche l’aspetto relativo alla lunga e solida tradizione saudita. Il pubblico è sicuramente più interessato al calcio rispetto a quello cinese, ma il recente boom dovrà essere confermato nel tempo. L’Al-Nassr ha visto crescere la sua affluenza media dagli 8.100 spettatori del 2022 ai 17.600 del 2023, principalmente grazie all’arrivo di Cristiano Ronaldo: una volta che CR7 non giocherà più lì, questo pubblico continuerà a seguire la squadra o no? Non va sottovalutato che le circostanze che hanno permesso a un giocatore del calibro del portoghese di trasferirsi a Riad sono state del tutto eccezionali, e non è detto che possano ripetersi tra due anni, alla scadenza del suo contratto. Un’altra critica si può fare riguardo il livello medio dei giocatori: in tanti ricordano come, agli ultimi Mondiali, la nazionale saudita abbia battuto l’Argentina futura campione del mondo, e usano questo esempio per certificare l’elevata qualità della squadra. Si potrebbe dire che una rondine non fa primavera: nel 1990 il Camerun sconfisse all’esordio l’Albiceleste di Maradona, poi finalista, ma da allora i Leoni Indomabili non sono mai più riusciti a superare il girone dei Mondiali. Pochi ricordano come, dopo aver battutto Messi e compagni, l’Arabia Saudita abbia poi perso con Polonia e Messico, chiudendo ultima nel Gruppo C.

Insomma, il valore tecnico del calcio saudita non è di livello così eccelso, e questa oggi è la più grande fragilità dell’intero progetto calcistico del paese. La nazionale non vince la Coppa d’Asia dal 1996, e nelle ultime tre edizioni (2011, 2015 e 2019) è stata due volte eliminata al primo turno e una volta agli ottavi di finale. I risultati diventano ancora più drammaticamente deludenti se guardiamo a un torneo ben più abbordabile come la Coppa delle nazioni del Golfo, ovvero un torneo tra paesi di cui l’Arabia Saudita è decisamente il più ricco, il più popolato, quello con il campionato più competitivo, le migliori strutture e la più radicata tradizione calcistica. E la selezione di Riad non porta a casa il trofeo addirittura dal 2003. Nell’ultima edizione, svoltasi lo scorso gennaio, è uscita al primo turno, eliminata da Iraq e Oman. Sebbene sia una situazione complessivamente migliore della Cina, la strada da fare è ancora tantissima. Il rischio, ben noto, è quello di costruire un grande torneo di star internazionali non supportato da una crescita di qualità dei giocatori locali. Negli scorsi giorni, The Athletic ha annunciato l’arrivo anche di Michael Emenalo, direttore sportivo nigeriano ex-Chelsea, come responsabile dello sviluppo tecnico della Saudi Pro League, che sicuramente dimostra la volontà di affrontare questo problema. Tuttavia, questo investimento è nulla se paragonato a quelli sostenuti dal Qatar per edificare l’Aspire Academy e lanciare l’operazione Football Dreams: in quasi 20 anni, il progetto qatariota ha portato una Coppa d’Asia, ma anche un Mondiale casalingo molto deludente e nessun giocatore in grado di farsi minimamente strada nel calcio europeo.
Rispondiamo quindi alla domanda da cui è partito questo articolo: l’Arabia Saudita è come la Cina? No, i due progetti per il calcio partono da basi molto differenti. Tuttavia, il punto di partenza non ci dice nulla riguardo a dove si approderà: il piano di Riad potrebbe avere successo e riuscire a intaccare l’egemonia europea, così come fallire e venire smobilitato, o perlomeno ridimensionato, nel giro di poche stagioni. Fare previsioni nette oggi dice più cose su colui che profetizza che sull’oggetto della profezia. È però evidente che il potere del Vecchio Continente sia messo in discussione come mai prima d’ora, e non solo per via degli arabi. Messi ha pur sempre scelto di andare negli Stati Uniti, il cui campionato è in forte crescita negli ultimi anni, e la spinta della FIFA a riformare il Mondiale per Club è un esplicito tentativo di creare una rivale della Champions League (indebolendo così la UEFA). Vederla solo come un match tra Europa e Arabia Saudita è quindi piuttosto semplicistico.
Forse l’Arabia Saudita farà qualcosa che la Cina di allora non aveva ancora pensato a fare, e cioè affrancarsi dal pubblico (e dai guadagni) occidentali. Non so dire se ci riuscirà, perché in fin dei conti gli occidentali continuano ad avere una visione in cui il “vero” calcio è solo quello europeo (neppure quello sudamericano) e magari opporrà delle contromisure a questa “deriva”.
Personalmente, che il calcio rimanga in Europa o si sposti in Arabia o altrove, non ci vedo una grande differenza: impostato in questo modo, continua a rimanere un’emanazione delle élite dominanti.
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