Estudiantes-Milan, l’affaire Combin e il regime militare

Lo sanno tutti quanto sia problematico giocare in Argentina. Ha avuto problemi l’Inter ad Avellaneda qualche anno prima, poi c’è stata la battaglia del Celtic del 1967, allungata a due partite in terra sudamericana per necessità dello spareggio. L’edizione successiva, il Manchester United aveva saggiato il gioco ruvido del temutissimo Estudiantes di La Plata, che aveva fatto uscire dal campo ferito Bobby Charlton. Il Milan ha fatto il suo, sempre contro l’Estudiantes, e può dire di essersi assicurato la Coppa Intercontinentale del 1969 vincendo 3-0 a San Siro nella gara d’andata. Adesso, alla Bombonera di Buenos Aires, si gioca soprattutto per tornare a casa tutti interi. Fin da subito, però, i giocatori argentini mettono in chiaro che hanno tutta l’intenzione di trasformare l’incontro in una corrida: al momento delle foto a inizio partita, tutti prendono un pallone e lo calciano provocatoriamente contro i rossoneri, in posa. E questo è solo l’antipasto.

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Il rifiuto di Carrascosa

Una domenica di gennaio del 1978 Jorge Carrascosa raggiunse César Luis Menotti per dargli una notizia che il ct dell’Argentina avrebbe preferito non ricevere, specialmente in quel momento. Il Flaco stava riflettendo sulla squadra che avrebbe dovuto portare, qualche mese più tardi, ai Mondiali casalinghi, che l’Argentina doveva assolutamente vincere: primo, perché lo esigevano i tifosi, ancora in attesa del primo trionfo mondiale dell’Albiceleste; e secondo, perché questo era ciò che voleva il regime militare al potere dal marzo del 1976. Di fede comunista, e non proprio segreta, Menotti si trovava sotto grandi pressioni sportive, politiche e anche morali, e tra le poche certezze che aveva c’era Carrascosa come terzino sinistro. Invece, quel giorno il Lobo lo raggiunse alle terme di Punta Magotes, a Mar del Plata, per dirgli che non voleva più giocare in Nazionale.

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Maradona e l’ingenuità politica

Nel 1987 Diego Armando Maradona conobbe per la prima volta di persona uno dei suoi più grandi miti, il Presidente cubano Fidel Castro, di cui portava un tatuaggio sulla gamba sinistra. L’attaccante argentino era stato insignito di un premio dall’agenzia di stampa dell’Avana Prensa Latina, e aveva quindi viaggiato fino a Cuba per ritirare il riconoscimento e poter incontrare Castro. Fu quello l’inizio di una lunga amicizia, durata per tutta la vita, che rappresenta ancora oggi il più stretto rapporto mai stabilito da un calciatore di fama internazionale con un leader politico. Già all’epoca Maradona divideva i tifosi per le sue simpatie comuniste, che insieme al genio sportivo e allo spirito ribelle ne fecero un idolo indiscusso della sinistra. In realtà, però, la storia politica di Maradona è ben più complicata e, sorpattutto, controversa di così.

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Il Mondiale di Menotti

“C’è un calcio di sinistra e uno di destra. I più generosi, i più artistici, i più colti sono sempre stati di sinistra. Un calcio aperto, vicino alla gente, l’orgoglio della rappresentatività e dell’appartenenza… Tutto ciò che predico suona più di sinistra che di destra. Poi c’è un altro calcio, a cui non importa della gente ma solo del risultato.” – César Luis Menotti

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Niente neri nell’Argentina: il Mondiale negato di Alejandro de los Santos

Quando la federazione diffuse la lista dei convocati per l’Uruguay, stilata dai selezionatori Francisco Olazar e Juan José Tramutola, Alejandro de los Santos sapeva già che il suo nome non ci sarebbe stato. Era il primo Mondiale di calcio della storia, e l’Argentina aveva tutta l’intenzione di vincerlo, presentandosi al torneo come vincitrice delle ultime due edizioni della Copa América. Ma per De los Santos, che all’epoca aveva 28 anni ed era all’apice della carriera, quella fu una grande delusione, e la motivazione non poteva che essere una, la stessa che da qualche tempo aveva convinto i selezionatori dell’Albiceleste a tenerlo fuori dalla nazionale a dispetto delle sue qualità: era nero, e nessuno voleva dare l’idea, al paese e al resto del mondo, che l’Argentina fosse un paese di neri.

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Perché non ci sono calciatori neri in Argentina?

Tra le nazionali sudamericane, l’Argentina spicca senza dubbio come un caso particolare: la Selección campione del mondo è totalmente bianca. Al massimo qualche mulatto. In un continente di squadre (e nazioni) multietniche, in cui a chiunque possono venire in mente noti giocatori dell’uno o dell’altro paese che abbiano la pelle nera, l’Argentina sfugge decisamente a questa regola. E dire che la sua storia non è poi così diversa da quella del resto del Sudamerica: è stata per secoli una colonia europea, popolata a forza con schiavi provenienti dall’Africa che venivano usati come forza lavoro nelle piantagioni. Anche a voler considerare le effettive differenze socio-culturali tra le colonie spagnole orientali e quelle occidentali e settentrionali come Colombia, Perù ed Ecuardor, appare subito evidente come l’eccezionalità argentina resista anche al confronto con Uruguay e Paraguay (pensiamo a José Leandro Andrade e Paulo da Silva Barrios, per esempio).

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Fratello, dove sei?

Mancavano meno di venti minuti: Ardiles gli diede la palla e si buttò in area, pronto a chiudere l’uno-due. Invece Leopoldo Luque stoppò secco di destro, e la palla fece un saltello; quando alzò la testa, i difensori erano ancora troppo lontani: peggio per loro. Un rimbalzo, e poi premette il grilletto del suo piede. Baratelli volò come se l’avessero sparato da un cannone, e toccò terra stordito dal boato del Monumental: Argentina 2 – Francia 1. Con quella vittoria, l’Albiceleste era certa del passaggio del turno, anche se restava da decidere se sarebbe stata prima o seconda nel girone, nella terza sfida con l’Italia. Festeggiarono, e la mattina dopo Luque ricevette la visita dei famigliari – per sapere se si era fatto male seriamente al braccio durante la partita, pensò. Il padre e lo zio si avvicinarono scuri in volto. “Leo, il Chaco ha avuto un incidente e s’è ammazzato”.

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La guerra di Osvaldo

Un giorno, durante un Leicester City – Tottenham, i tifosi delle Foxes iniziarono a urlare “England! England!” rivolti a due avversari, Osvaldo Ardiles e Ricardo Villa. I rivali, per tutta risposta, presero le difese dei loro beniamini sudamericani cantando “Argentina! Argentina!”. Letta così, senza contesto, questa storia sembra avere ben poco senso, se non per un vago istinto xenofobo degli inglesi, all’epoca per nulla abituati agli stranieri nel proprio campionato. Ma la verità è che la mattina del giorno precedente alla partita, il 2 aprile 1982, truppe argentine avevano invaso le isole Falkland, espellendo il governatore e assumendo il controllo dell’arcipelago.

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Perón, il calcio come politica

Al momento dell’inaugurazione, il 3 settembre 1950, il nuovo stadio di Avellaneda era uno dei più grandi e moderni d’Argentina, con una capienza di ben 60.000 spettatori. Quando erano iniziati i lavori, quattro anni prima, la squadra di cui sarebbe presto divenuto la casa, il Racing Club, era in lotta per tornare al vertice del calcio nazionale, in quel momento occupato dalla Maquina del River Plate. Per via della sua forma, a base rotonda ma dalle pareti molto alte, la gente del posto prese subito a chiamarlo El Cilindro; ma il suo vero nome era Estadio Juan Domingo Perón, il nome del presidente in carica dell’Argentina, l’uomo grazie a cui quell’edificio era stato costruito.

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Argentina, 1948: il calcio in sciopero

Era il 10 novembre 1948, quando un gruppo di calciatori che si firmavano Futbolistas Argentinos Agremiados rilasciò un comunicato a dir poco sconvolgente: non sarebbero scesi in campo, la domenica seguente, interrompendo così il campionato prima della fine. Da anni vedevano i loro club diventare sempre più ricchi con l’aumento degli introiti dei biglietti, mentre i loro stipendi restavano gli stessi, e alla scadenza del contratto non avevano la libertà di scegliere dove trasferirsi. Si erano già lamentati con l’AFA, la Federcalcio argentina, ma erano stati ignorati. Così, avevano deciso di scioperare.

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