La storia è la seguente. È un lunedì mattina di grande fermento, a Botteghe Oscure, la sede del Partito Comunista Italiano a Roma. Si dev’essere probabilmente da qualche parte tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, ma nessuno ha mai riportato alcuna data. A tenere banco è un infervorato Pietro Secchia, il responsabile della propaganda del partito e uno degli esponenti comunisti più radicali. Secchia ha un programma politico ben preciso: il PCI deve innanzitutto organizzare una rivoluzione, se necessario anche armata, per rovesciare il governo conservatore filo-americano e imporre al potere il socialismo di stampo sovietico. Tutti, nel partito, conoscono le sue posizioni, anche se gran parte del PCI ora è più favorevole a una politica di integrazione pacifica col sistema democratico. A guidare questa fazione è il segretario generale Palmiro Togliatti, che secondo la storia, stanco della ben nota retorica di Secchia, gli rivolge una domanda provocatoria: “Cos’ha fatto ieri la Juventus?”. Secchia ammutolisce e, da non appassionato di pallone, non sa che rispondere, così Togliatti lo incalza: “E tu pretendi di fare la rivoluzione senza conoscere i risultati della Juventus?”.
Se questo dialogo sia mai avvenuto, non è dato saperlo: fa parte delle innumerevoli leggende sussurrate in via delle Botteghe Oscure, che forse anche per il suo nome evoca fantasiose storie di mistero. Un’altra versione della storia, un po’ meno credibile, sostiene che Togliatti ripetesse quella domanda a Secchia praticamente ogni lunedì mattina, per innervosirlo. Due persone diversissime, per carattere e per esperienza di vita. Togliatti proveniva da una buona famiglia piemontese di insegnanti, aveva potuto studiare e laurearsi, e durante gli anni del Fascismo al potere aveva vissuto in Unione Sovietica, rientrando in Italia solo dopo l’armistizio. Era stato lui, nell’aprile del 1944, a spostare l’obiettivo del PCI dalla rivoluzione socialista alla collaborazione con le altre forze antifasciste. Similarmente fu lui, nel dopoguerra, a definire la “via italiana al socialismo” che tanto indisponeva Pietro Secchia. Anch’egli piemontese, proveniva però da una famiglia operaia, si era formato politicamente nelle lotte sindacali del biennio rosso, aveva patito il carcere e il confino sotto il regime, e una volta liberato aveva aderito alla Resistenza. Era stato d’accordo con Togliatti sulla svolta di Salerno, ma dopo la fine della guerra riteneva che il PCI dovesse portare avanti una rivolta armata contro il governo borghese.
Conoscere o meno quanto avesse fatto la Juventus non era forse così importante per la rivoluzione, ma raccontava bene la differenza tra Togliatti e Secchia. Il segretario – lo sapevano tutti – era un tifoso dei bianconeri: apparentemente un paradosso enorme, considerando che la Juve era indiscutibilmente la “squadra dei padroni”. Fondata nel 1897 da un gruppo di liceali torinesi, a partire dal 1923 era finita sotto il controllo della famiglia Agnelli, proprietari della grande fabbrica automobilistica FIAT. Nessuno quanto gli Agnelli incarnava la borghesia industriale italiana e il suo cinico trasformismo: erano stati saldamenti legati ai governi liberali di epoca monarchica, poi si erano convertiti organicamente alla nuova Italia a guida fascista, e nel dopoguerra erano divenuti una delle pietre angolari della Repubblica antifascista. Soprattutto tra i comunisti che si interessavano poco di calcio – o di quelli che se ne interessavano, ma simpatizzavano per altri colori – il noto sostegno di Togliatti per la Juventus era una fastidiosa contraddizione.
Eppure non dovrebbe stupire nessuno che il capo dei comunisti fosse un bianconero. Prima di tutto, perché nella vita di una persona prima arriva la fede calcistica – che matura da ragazzini – e poi quella politica – che si sviluppa in età più matura. Secondariamente, se è di certo controverso essere socialisti e tifare per la squadra degli Agnelli, va considerato che qualsiasi club sportivo in Italia all’epoca era in mano a un qualche imprenditore più o meno ricco: se contraddizione c’era, voleva dire che ognuno aveva la propria. Togliatti proveniva pur sempre da una famiglia relativamente agiata, aveva studiato all’Università di Torino – ambiente graniticamente juventino – nei primi anni Dieci, laureandosi nel 1915. Non era un’epoca proprio felicissima per i bianconeri, che nel 1913 erano addirittura retrocessi in Promozione, salvo poi essere riammessi immediatamente nel girone piemontese della Prima Categoria. È però possibile che Togliatti si fosse già avvicinato alla Juve già in precedenza, quando il club conquistò il suo primo scudetto, nel 1905. Ironia della sorte, si perse gli anni d’oro della squadra: quando, nel 1926, la Juventus tornò a vincere il campionato, Togliatti era da pochi mesi espatriato a Mosca, e di conseguenza non visse neppure i cinque scudetti consecutivi degli anni Trenta.

Togliatti non era comunque da solo, nella sua fede calcistica: un nutrito gruppo di dirigenti e militanti comunisti simpatizzava in realtà per la Juventus. Il più importante di tutti era una giovane figura emergente del sindacato CGIL, di cui nell’immediato dopoguerra era divenuto vicesegretario: Luciano Lama. Romagnolo della zona di Forlì, figlio di un capostazione delle ferrovie, era stato partigiano con i socialisti per poi passare al PCI. Proprio negli anni in cui sarebbe stata pronunciata la celebre frase di Togliatti a Secchia, Lama faceva carriera come leader sindacale: vicesegretario, come detto, nel 1947, e cinque anni dopo segretario della FILCEA, la sezione della CGIL dedicata ai lavoratori chimici; nel 1958, sarebbe divenuto segretario della FIOM, il sindacato degli operai metallurgici. Per Lama, tifare Juventus aveva comunque motivazioni differenti rispetto a quelle di Togliatti, che a Torino ci aveva vissuto. In quanto romagnolo, sentiva una forte rivalità con le squadre emiliane e con il Bologna in particolare, grande potenza calcistica negli anni Venti e Trenta che aveva ricevuto l’appoggio anche di molte figure di punta del Fascismo, su tutti Leandro Arpinati. Il tifo per la Juve, quindi, era un tifo di protesta, antagonista al potere locale dei bolognesi.
Cosa aveva dunque fatto, la Juventus? Non conoscendo l’anno esatto in cui sarebbe stata pronunciata la frase, è difficile dare una risposta. Di sicuro, nel dopoguerra la formazione bianconera aveva iniziato a risollevarsi dai suoi anni difficili. Nel 1947 e nel 1948 era arrivata seconda in classifica, alle spalle del Grande Torino, grazie a una squadra in cui militavano giocatori importanti come Lucidio Sentimenti (il celebre Sentimenti IV), Carlo Parola e Giampiero Boniperti. Viene però da chiedersi cosa pensasse uno stalinista di ferro come Togliatti del fatto che alcuni nuovi giocatori della sua squadra fossero europei dell’Est in fuga dal comunismo: nel 1946 erano arrivati i boemi Čestmír Vycpálek e Július Korostelev, un anno dopo era toccato al loro connazionale Ján Arpáš e al magiaro Mihály Kincses. La salita al potere dei regimi filo-sovietici nell’Est aveva portato a un grande esodo di giocatori verso l’Occidente, di cui avevano beneficiato molte squadre italiane, ma la Juve in particolare: che sentimenti nutriva il segretario del PCI, al dover tifare per persone che avevano “tradito la rivoluzione”? Se fosse stato esperto di calcio, Secchia avrebbe potuto ribattere con queste accuse, e avrebbe probabilmente colpito nel segno.
Va anche detto che difficilmente, alla fine degli anni Quaranta, si sarebbe potuto ritenere la Juventus come una squadra pienamente popolare. Il Torino, dominatore del campionato e tradizionalmente club delle classi lavoratrici del capoluogo piemontese, godeva di un supporto molto maggiore. La fama nazionale e inter-classe della Juve si sarebbe sviluppata solo in seguito, a partire almeno dagli anni Cinquanta. Proprio nel 1950 i bianconeri tornavano a vincere lo scudetto, trascinati da un attacco sensazionale capace di realizzare 100 reti totali in 38 partite (che non fu record solo perché il Milan, secondo, ne fece 118). In campo c’erano ancora Parola e Boniperti, ma alla rosa si erano aggiunti i campioni stranieri Rinaldo Martino, John Hansen e Karl Aage Præst, mentre in panchina sedeva l’inglese Jesse Carver – lui sì un rivoluzionario, almeno a livello tattico. La nuova Juve – giovane, bella e vincente – si apprestava a diventare un fenomeno sociale: rivinse il titolo nazionale nel 1952, e poi arrivò ancora seconda, dietro all’Inter, nel 1953 e nel 1954.
Erano gli anni della presidenza di Gianni Agnelli, appena trentenne rampollo della famiglia che controllava il club e la FIAT, figura centrale delle cronache del dopoguerra. Prima ancora di ascendere alla guida dell’azienda (sarebbe avvenuto solo nel 1966), Gianni Agnelli era entrato nel consiglio direttivo del club già da adolescente. Nell’immediato dopoguerra, tra il 1945 e il 1947, era divenuto il vice del presidente Pietro Dusio, al quale era poi succeduto. Fu proprio sotto la presidenza di Gianni Agnelli che la Juve si risollevò dal suo lungo periodo di crisi, consolidando più che mai il legame tra la ricca famiglia torinese e la società bianconera. L’Avvocato rimase alla guida del club fino al settembre 1954, quando, dopo il matrimonio con Marella Caracciolo di Castagneto, iniziò a dedicarsi principalmente all’attività imprenditoriale. Si tratta di un momento simbolico, nella nostra storia: dopo il cambio ai vertici societari, la Juve entrò in un breve periodo nero (arrivò settima, dodicesima e poi nona nelle successive tre stagioni), prima di tornare a vincere lo scudetto della stella del 1958. Ma per un altro protagonista di questa vicenda il 1954 fu ben più fatale.

La morte di Stalin, avvenuta nel 1953, aveva convinto ulteriormente i dirigenti del PCI ad assestarsi su posizioni più moderate, seguendo la linea dettata da Togliatti. Ciò aveva avuto come conseguenza la necessaria marginalizzazione dell’ala più radicale rappresentata da Secchia. Nel 1954, quest’ultimo era stato affiancato da Giorgio Amendola, che di lì a poco avrebbe dovuto rilevarne il ruolo nell’organizzazione della propaganda del Partito. A luglio dello stesso anno, scoppiò poi la bomba che distrusse per sempre le ambizioni politiche di Secchia: il suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, scappò con soldi e documenti del PCI – un furto che non poteva essere denunciato, dato che la cassa comprendeva denaro arrivato clandestinamente da Mosca e documenti che dovevano restare riservati. Secchia, che voleva fare la rivoluzione ma era stato fregato dal suo braccio destro, perse ogni peso all’interno del Partito, e venne degradato a un incarico direttivo nella sezione lombarda del PCI.
La repressione del dissenso interno al Partito e l’epurazione dei non-allineati non aiutarono molto la linea di Togliatti, soprattutto dopo i fatti d’Ungheria e l’appoggio della segretaria comunista all’intervento dell’Armata Rossa a Budapest. Diverso dissidenti, tra cui Loris Fortuna e Antonio Giolitti, lasciarono il PCI per passare ai socialisti, i quali alle elezioni del 1958 videro un consistente aumento dei voti, salendo a 4,2 milioni di sostenitori (mentre i comunisti erano rimasti praticamente fermi rispetto alle dimensioni del 1953, con più di 6 milioni di preferenze). Togliatti sarebbe morto pochi anni dopo, nel 1964, colpito da un ictus mentre era in viaggio in Unione Sovietica: pochi mesi prima, la sua Juventus aveva chiuso solo quinta in Serie A. In quel periodo, con il boom economico e la conseguente emigrazione a Torino di molti lavoratori dal Sud Italia, la Juve della FIAT iniziava a diventare una squadra della classe operaia.
Seppure conoscesse bene i risultati settimanali dei bianconeri, Togliatti non fece mai la rivoluzione né riuscì a vincere le elezioni. Nel 1997, in un articolo sull’Unità, il critico letterario Folco Portinari scrisse: “Dio mio, chi potrà raccontare la nostra amara delusione, di idealisti traditi, quando vedemmo in tribuna d’onore Palmiro Togliatti tifare Juventus accanto agli agnellini, ai giovani Agnelli. Quel giorno ci accorgemmo che la lotta di classe era finita. Era stata un gioco. Infatti perdemmo le elezioni e per andare al potere, mezzo secolo dopo, avremmo dovuto mollare su tutto, sul nome, sulla falce e il martello, sui simboli”.
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Fonti
–COCCIA Pasquale, Il contado tifa per la zebra, Il Manifesto
–MAGNO Michele, Gramsci e Togliatti, la rivoluzione e la Juventus, StartMag
–ROMEO Ilaria, La squadra del padrone, Collettiva
–ROMEO Ilaria, Tra la rivoluzione e la Juve. La passione dei leader Pci per il calcio, Striscia Rossa