Come l’Italia sta diventando una periferia del calcio

Rieccoci qui, circa due anni e tre mesi dopo la Macedonia del Nord. L’Italia del pallone sembra bloccata in un perverso loop temporale in cui il tempo passa, i nomi cambiano ma tutto resta più o meno sempre uguale. Sui media già tornano a vorticare tutte le retoriche che già conosciamo: ci sono troppi stranieri in Serie A; non si crede abbastanza nei giovani; c’è una grave crisi tecnica; i giovani non giocano più per strada… I discorsi sono sempre gli stessi da tempo, e la sensazione è che anche questa volta si parlerà molto prima di trovare l’alibi giusto che permetterà al calcio italiano di rinviare ancora una volta una riforma radicale, che vada dai vertici della FIGC al modo in cui vengono allenati i settori giovanili a livelli più bassi della piramide. Perché la verità è che la crisi dell’Italia non è un problema del 2024, nemmeno del 2018, ma almeno del 2014. Solo che in questi anni abbiamo avuto la sventura di riuscire a nasconderla in almeno due occasioni (l’Europeo di Conte e quello di Mancini), credendo che bastasse cambiare allenatore e stile di gioco per risolvere ogni guaio senza dover rimettere in discussione certezze consolidate da decenni e ormai vecchie.

Che questa volta possa veramente cambiare qualcosa lo si può già escludere. Le responsabilità vere e proprie stanno ben sopra la testa di Luciano Spalletti, ovviamente, ma quelle per questo specifico fallimento a EURO 2024 sono in gran parte sue. Gli Azzurri hanno faticato a qualificarsi agli Europei, hanno faticato in ognuna delle quattro partite, non hanno mai avuto una chiara idea di cosa dover fare in campo. Il secondo tempo contro la Svizzera è l’emblema di questo disastro: l’Italia entra in campo dopo l’intervallo e i doverosi aggiustamenti del ct pronta a farsi valere, perde subito il pallone e subisce inerme il raddoppio svizzero. Ma nonostante questo, Spalletti nel post-partita non si è assunto le necessarie responsabilità per la prestazione in Germania, che avrebbero dovuto condurre alle sue dimissioni. Come ha sintetizzato perfettamente Daniele Morrone, in questo paese tutti vanno in campo facendo a gara a chi grida più forte le parole dell’inno nazionale – e quanta retorica e polemiche ci furono, vent’anni fa, sul bisogno di “far vedere” che ci teneva all’Italia cantando a squarciagola! – nessuno si dimette mai dopo i fallimenti. Ma alla fine, anche qui il calcio è lo specchio di un paese: tutti patrioti, ma nessuno che si assuma mai anche il lato più fastidioso delle responsabilità.

Sanificare il discorso

Capire dove nascano i problemi dell’Italia non è semplice, ma si può almeno provare ad abbozzare un discorso più ampio, senza la pretesa di trovare la “formula magica del pallone”, provando però a stimolarci la mente e uscire dai soliti luoghi comuni. Innanzitutto, facendo piazza pulita dei ridicoli alibi che già stanno venendo proposti da chi, invece, avrebbe il compito di dire cose intelligenti.

  • È una squadra scarsa. Probabilmente sì. Ma abbiamo rischiato di fare 2-2 con l’Albania, abbiamo faticato a fare 1-1 con la Croazia, mentre due anni fa perdevamo con la Macedonia del Nord dopo aver pareggiato con Bulgaria e Irlanda del Nord: tutte queste squadre sono più talentuose della nostra? Ovviamente no. Prossimo caso.
  • Non si gioca più per strada. Vero, e non lo si fa più nemmeno in Spagna, Germania, Inghilterra, Brasile, Argentina, Francia, quindi forse la questione è irrilevante. Si gioca invece ancora per strada in Bangladesh, per esempio: che effetto ha avuto questa formazione tecnica sulla qualità della squadra bengalese? Nel frattempo, anche in Africa si gioca sempre meno in strada e sempre più nelle scuole calcio, e il livello delle nazionali africane e dei loro giocatori è in crescita: agli ultimi Mondiali, un Marocco composto da giocatori formatisi nelle scuole calcio europee o di Rabat ha ottenuto un risulato storico. Prossimo caso.
  • Ci sono troppi stranieri. Difficile dire se siano “troppi”, di sicuro ce ne sono tanti. Come anche nella Premier League inglese, però, e in altri campionati europei che producono nazionali con maggiore qualità rispetto a noi. Storicamente, mettere un tetto al numero degli stranieri in campionato non ha mai dato grandi risultati: lo hanno fatto in Russia, per dire, e non è che negli ultimi vent’anni ci abbiano invaso di fenomeni. Prossimo caso.
  • Manca un grande centravanti. E manca pure alla Spagna, alla Germania, all’Argentina, al Brasile. In compenso, ce ne hanno uno la Norvegia (nemmeno qualificatasi a questi Europei) e la Polonia (fuori ai gironi). Scamacca ha fatto ottime cose con l’Atalanta anche in Europa League, eppure a EURO 2024 ha fatto peggio di Ivan Schranz dello Slavia Praga. Forse non ce lo si ricorda, ma ai Mondiali del 2006 Luca Toni segnò solo 2 reti, Del Piero, Gilardino, Iaquinta, Inzaghi e Totti appena 1; il Mondiale lo vincemmo con i gol decisivi di Materazzi e Grosso. Prossimo caso. Ah, finito?
Gente che non aiuta…

La questione tecnica e i giovani

Una delle tematiche comunque più presenti nel dibattito sul calcio italiano è che da anni non produciamo più talenti offensivi, mentre un tempo potevamo contare su gente come Baggio, Totti e Del Piero. Questo è un fatto abbastanza indiscutibile, ma merita di essere considerato in maniera più seria. Le promesse, all’Italia, non sono certo mancate, ma per un motivo o per l’altro non sono mai diventate qualcosa di più. Nella mia ancora limitata carriera da appassionato e tifoso di pallone, ho sentito e letto descrivere come futuri compioni tantissimi attaccanti italiani che poi sono svaniti, per i motivi più disparati. Arturo Lupoli, Giuseppe Rossi, Fabio Borini, Nicola Pozzi, Alberto Paloschi, Mario Balotelli, Antonio Cassano, Patrick Cutrone, Stephan El Shaarawy, Sebastian Giovinco, Robert Acquafresca, Manolo Gabbiadini, Mattia Destro, Federico Bernardeschi, Nicolò Zaniolo, Moise Kean, Andrea Pinamonti, Willy Gnonto. E di sicuro ne mancano altri alla lista.

Che ci sia una dispersione dei potenziali talenti nel passaggio tra adolescenza ed età adulta è fisiologico, ma qua i numeri sembrano piuttosto ampi. Nelle scorse settimane parlavo con Alessandro Zauli, allenatore specializzato nel calcio giovanile, che mi segnalava che solamente il 3% dei calciatori che fanno la trafila nelle selezioni giovanili poi arrivano in Nazionale maggiore. O c’è un problema nella capacità di selezionare i giocatori, diceva Zauli, o succede qualcosa che a un certo blocca la crescita di questi ragazzi. Può essere che per alcuni il salto dalle giovanili alla Serie A sia troppo brutale, ma non è una risposta che convince molto: ci sono diversi casi di giocatori che anzi da giovanissimi, all’esordio in campionato, lasciavano intravedere ottime cose, perdendosi solo più avanti (pensiamo a Kean, Zaniolo, Balotelli, dominanti già a 19 anni). Prendiamo l’Italia U20 che un anno fa raggiungeva la finale Mondiale: solamente due di quei giocatori hanno disputato la scorsa stagione da titolari in Serie A (Prati e Baldanzi). Il miglior giocatore della competizione, Cesare Casadei, ha fatto la riserva al Leicester City nella seconda divisione inglese, per poi diventare un comprimario al Chelsea (71 minuti in 11 partite). Il miglior portiere del torneo, Sebastiano Desplanches, ha giocato 4 partite in B col Palermo.

Manca la fiducia nei giovani? Può essere, ma riesce difficile credere che sistematicamente giocatori di indiscutibile talento vengano tenuti forzatamente in panchina per ragioni anagrafiche. Anche perché il caso di Casadei, in Inghilterra, sembra dirci che il problema non è solo italiano: l’ex-Inter, per intenderci, ha 21 anni, un’età in cui di solito un calciatore di qualità si è già affermato. A livello tecnico i giovani italiani non sembrano avere nulla di meno rispetto ai coetanei stranieri, quindi se non riescono a mantenere le promesse con la crescita viene il dubbio che l’ostacolo sia di natura psicologica, nella capacità di resistere alle pressioni e di mantenere la concentrazione in campo per tutta la durata di un incontro, e poi di una stagione. Si sente sempre parlare di tecnica e di tattica (sempre come se le due cose siano in competizione), e non si parla mai di testa. Anche quella va allenata: crescere dei giovani calciatori non significa solo insegnare loro a dare calci a un pallone e a muoversi nel modo giusto, ma anche formarli dal punto di vista psicologico e umano. Il fatto che questo aspetto sia costantemente ignorato in ogni discorso sembra suggerire che la lacuna più grave possa essere qui.

Luca Toni, da molti considerato l’ultimo grande centravanti italiano: fino ai 27 anni non era considerato un attaccante da Serie A e non aveva mia giocato in nessuna selezione azzurra. Stesso discorso, più o meno, per Antonio Di Natale.

La riforma di un sistema

Come detto, il calcio italiano ha il fiatone da almeno dieci anni, ma come nella politica parlamentare si vuole fare il possibile per non dover operare una riforma radicale del sistema. Cosa sarebbe questa “riforma”? Un cambiamento coerente e a lungo raggio, che ripensi tutto il modo in cui viene concepito il calcio in Italia: dai metodi di allenamento nelle giovanili alla struttura delle nazionali, dalla formazione degli allenatori a Coverciano alle gerarchie istituzionali. L’Italia ha fatto scuola, in termini di organizzazione calcistica, con la creazione del Centro Tecnico Federale attorno a cui girava un intero sistema volto a plasmare un determinato tipo di calcio. Questo assetto, però, risale all’inizio degli anni Cinquanta, e da allora a oggi ha subito sostenzialmente solo dei piccoli aggiornamenti, ma mai delle vere e proprie riforme. È come lo stadio di San Siro, a cui hanno aggiunto anelli su anelli invece di tirare giù tutto e ricostruire da capo. Nel frattempo, paesi come la Francia, la Spagna, la Germania e l’Inghilterra hanno tutti operato negli anni cambiamenti anche abbastanza radicali dei propri sistemi, per renderli più moderni e per rinnovare il proprio calcio.

In Italia questo non è successo, come d’altronde non succede nulla nemmeno a livello di strutture, che sono ferme agli anni Novanta, e che appunto paiono il simulacro perfetto del problema. Il sistema del calcio italiano è diventato un groviglio burocratico dai toni gattopardeschi, e i risultati della Nazionale ne sono solo un esempio tra tanti. Anche cose che sembrano non c’entrare nulla con gli aspetti di campo finiscono alla fine per restituire la stessa impressione. Pensiamo alla lotta contro il razzismo, da anni sbandierata dalla FIGC tramite periodiche promesse di “tolleranza zero” e di novità che sicuramente questa volta risolveranno il problema, che invece sta sempre lì, inaffrontato se non in superficie, e pronto a riemergere ogni volta. Dagli stadi alla Nazionale, dai settori giovanili alle questioni sociali, nessuna delle questioni che la FIGC avrebbe dovuto prendere di petto in questi anni può essere descritta in modo diverso da un fallimento. Possibile che, in una situazione del genere, i vertici federali non siano mai cambiati da sei anni a questa parte?

1 commento su “Come l’Italia sta diventando una periferia del calcio”

  1. D’altronde, è da quando l’Italia ha vinto il mondiale nel 2006 che si respira quest’aria di “adesso vediamo cosa farà questa nuova generazione per mantenere viva questa tradizione”: che i giovani sentano la pressione e non la sopportino mi pare anche normale…

    (Sugli stadi: stiamo ovviamente aspettando il prossimo grande evento da organizzare in Italia. Così li costruiremo male, in fretta, buttandoci valangate di soldi pubblici, possibilmente in barba ad ogni codice degli appalti. Oppure stiamo aspettando che qualche squadra di club faccia da sé e ci “regali” dei luna park come quelli inglesi, magari distruggendo stadi che sono diventati storici).

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