Una storia di giornalisti sportivi, partigiani, rivoluzionari e idealisti

Per essere un lunedì mattina, il giornalista G. B. aveva ancora un’insana voglia di dormire. Nel momento in cui squillò il telefonò, pensò che era troppo presto per svegliare un pover’uomo. Erano le 11.00. “Chi parla?” domandò, lasciando trasparire un briciolo d’irritazione. “Nino”. G. B. pensò immediatamente all’unica persona che avrebbe potuto presentarsi a lui al telefono dicendo quella sola parola. Ma, per prudenza, domandò: “Nino dell’Ossola?”. “Proprio” rispose quell’altro, incartando quella ‘r’ tra le tonsille e le labbra, che valeva da conferma più della parola stessa che aveva pronunciato. Il giornalista G. B. scordò l’indignazione per la sveglia, e lo salutò calorosamente: d’altronde, erano nove anni che non si vedevano né sentivano. Ma il Nino tagliò corto, col tono di chi stava correndo una maratona. “Senti, G. B., quando ci siamo lasciati, nell’aprile del ’45, tu mi hai detto che se la mia vita fosse stata in pericolo avrei potuto rivolgermi a te. Bene: ti telefono per questo.”

G. B. aveva solamente 34 anni, ma era già il giornalista sportivo più famoso d’Italia. Era nato in una modesta famiglia della campagna pavesina, il padre faceva sia il sarto che il barbiere, ma guadagnava abbastanza per fare studiare i figli. G. B. – cioè Giovanni Luigi, detto Gianni; Brera di cognome – era stato mandato a fare il liceo a Milano, stando a dormire dalla sorella maggiore che lassù faceva la maestra elementare. Era stato lì che il calcio gli aveva teso un agguato a cui non aveva avuto scampo: aveva iniziato a giocare nella squadra del liceo, si era fatto pure un buon nome come terzino, e alla fine aveva anche iniziato a scrivere alcuni articoli per il settimanale Lo schermo sportivo. Giocava troppo e studiava poco, così fu richiamato a casa: per il pallone ebbe meno tempo, ma se la famiglia era riuscita ad allontanarlo un poco dal gioco quello stratagemma nulla aveva potuto contro la tirannide della penna. Continuò a scrivere per la rivista milanese anche dopo il ritorno nel Pavese, e a soli 17 anni venne accettato a scrivere della Serie C sul Guerin Sportivo.

Fu così che Gianni Brera divenne un giornalista, tanto precoce quanto brillante. Il destino le aveva provate tutte per tenerlo lontano dal calcio, perfino mettendoci di mezzo una guerra mondiale. Subito dopo il conflitto, Bruno Roghi lo volle alla Gazzetta dello Sport, ma pure in quel caso niente pallone: si sarebbe occupato dell’atletica leggera. Andò a finire che ne divenne un esperto appassionato, scrivendo alcuni articoli davvero eccezionali, al punto che nel 1949 fu scelto come inviato del giornale in Francia per seguire il Tour. Ancora una volta le sue doti di scrittore e cronista furono tali che, a corsa terminata e appena 30enne, Brera fu fatto direttore del quotidiano, come parte di un triumvirato che comprendeva anche i più esperti Emilio De Martino e Giuseppe Ambrosini. Ricopriva questa carica – che gli dava evidentemente il privilegio di poter dormire fino a tardi – nel momento in cui ricevette l’inattesa telefonata del Nino, una voce che non sentiva da davvero troppo tempo.

Qui la storia del giornalista finisce: si fa un salto indietro, e inizia quella del partigiano. Brera era un fascista. Per quanto, almeno, potesse essere fascista un ragazzo di 21 anni cresciuto in un paese come l’Italia di quei tempi. Studente colto e appassionato non solo di sport, allo scoppio della guerra si arruolò volontario nei paracadutisti, fece l’addestramento ma non vide mai una battaglia nemmeno da lontano: scriveva troppo bene, sarebbe stato un’arma ben più temibile nell’Ufficio Propaganda. E lo fu di buon grado, bisogna dirlo, scrivendo per i giornali fascisti articoli assolutamente ortodossi, anche dopo l’armistizio e la nascita della Repubblica Sociale. Poi, d’improvviso, qualcosa cambiò, e la sua firma iniziò a svanire. Il 16 giugno 1944 passò il confine svizzero e fu internato in un campo per profughi italiani a Balerna, vicino Chiasso. Lì conobbe Attilio Bonacina e Cino Bemporad, due importanti antifascisti, e si schiarì le idee. Ah sì, conobbe anche Nino, che gli salvò la pelle in due occasioni, subito dopo.

Un giovane giornalista G. B., al lavoro.

G. B. rientrò in Italia in Val d’Ossola, dopo che i ribelli ebbero preso il controllo della regione, formando una repubblica antifascista. Per il suo passato da penna del regime, Brera venne processato, ma il Nino assicurò al comandate Cino Moscatelli che di quel ragazzo lombardo ci si poteva fidare. Divenne a tutti gli effetti partigiano, prese parte alle azioni e alle fughe a cui doveva prender parte, e si ritrovò di nuovo sotto processo perché accusato di fare il doppio gioco: anche questa volta, il Nino garantì per lui. Aveva quattro anni più del partigiano G. B., che a questo punto gli doveva tutto: era cresciuto in un’umilissima famiglia del Cremonese, si guadagnava da vivere come operaio, e in fabbrica aveva imparato a lavorare e a pensare. Era un comunista convinto, non un intellettuale come tanti che si potevano incontrare a fare propaganda tra i profughi in Svizzera: a Milano, dopo l’armistizio, aveva organizzato il furto di camion e fucili da una fabbrica dell’Alfa Romeo appena prima che i nazisti potessero occupare la città. Il Val d’Ossola, per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, una volta si gettò da un dirupo di un centinaio di metri: gravemente ferito, si nascose per due mesi in una baita a più di 2.000 metri, si curò da solo col poco che aveva, e appena si sentì meglio prese su un bastone e zoppicò fino al punto di ritrovo con il resto dei suoi compagni.

Nino credeva nella causa, e per lui la causa era la rivoluzione. Non una lenta e progressiva presa del potere tramite uno studiato lavoro di propaganda, persuasione e lotta politica: la lotta armata, ci voleva! Alla fine della guerra, il Nino e il partigiano G. B. si salutarono per sempre, lasciandosi con una solida amicizia, due strade che necessariamente si dovevano dividere, e un patto di sangue. Mentre Brera diventava il più importante giornalista sportivo del paese, il Nino si imponeva come una figura di punta del Partito Comunista, diventando il braccio destro di uno dei più influenti dirigenti del PCI, Pietro Secchia. A quel punto, a chiamarlo Nino erano rimasti in pochi, finita la guerra: per tutti era Giulio Seniga. Secchia gli aveva affidato l’organizzazione del parapartito, una rete di contatti, rifugi clandestini, depositi di armi e denaro segreti, documenti e piani di azione. Per la rivoluzione o, più facilmente, per rispondere a un possibile colpo di stato fascista organizzato dagli Stati Uniti in caso di vittoria elettorale comunista. Nino aveva preso anche lezioni di volo: nel peggiore dei casi, sarebbe stato lui a dover pilotare un Sokolov cecoslovacco opportunamente occultato, e condurre in salvo all’Est Togliatti e altri importanti dirigenti del Partito. Dopo la Liberazione, Nino e il giornalista G. B. non avevano davvero più nulla in comune, se non un conto aperto.

Eppure, quella mattina di luglio, Giulio Seniga si ritrovava a casa di Gianni Brera, uno dei pochi amici rimastigli, a raccontagli una storia che al direttore della Gazzetta sarebbe sembrata assurda, se il protagonista non fosse stato proprio il Nino. “Te farai la fine della pulcetta anarchica…” commentò Brera, con dotto riferimento a una poesia di Trilussa, dopo che ebbe sentito la storia del vecchio amico. La pulcetta che era rimasta schiacciata tra gli ingranaggi d’un orologio, dentro cui s’era gettata di sua sponte per vendicare le ruote proletarie, costrette a faticare per far fare bella figura alle sfere, che invece non facevano niente. Ma la descrizione gli calzava bene, a Seniga: il giorno prima, fingendosi indisposto, aveva disertato un impegno politico con Secchia, e invece aveva messo in atto il suo atto di ribellione estrema. Aveva fatto il giro dei rifugi del Partito, di cui aveva le chiavi; aveva requisito documenti e denaro – un milione di dollari americani; era montato in panchina e da Roma era volato fino a Milano, prima che i suoi compagni potessero scoprire quello che aveva fatto.

Traditore lui? Nossignore, erano quegli altri ad aver tradito, disse a G. B. Prendevano i soldi da Mosca, ma li usavano per i propri comodi: nessuna rivoluzione, nessun concreto sostegno al Partito e alla povera gente che ne faceva parte e che credeva nella causa. Ovviamente quei soldi non esistevano, non ufficialmente: nessuno ne poteva denunciare il furto, ma questo non era granché di aiuto. Sicuramente, qualcuno era già sulle sue tracce. Tutta un’Italia – rossa e clandestina – si stava muovendo in silenzio per capire cosa fosse successo e dove si trovasse “il ladro” Giulio Seniga. Nessuno, però, si sognava di andarlo a cercare a casa di un giornalista sportivo, che non faceva praticamente alcuna vita politica, nonostante una vicinanza ai socialisti. In quell’appartamento, Giulio Seniga scrisse due lettere: la prima alla sua compagna, Anita Galliussi, a cui doveva spiegare il proprio gesto. La ribellione covava da tempo, ma ad innescarla definitivamente era stato un evento specifico: nel numero dell’Unità del 25 luglio non c’era una sola riga per ricordare la caduta del Fascismo, avvenuta esattamente 11 anni prima. “Sono tranquillo perché sento di essere nel giusto”.

Giulio Seniga, nel dopoguerra, di ritorno al Passo del Cingino, in Val d’Ossola, teatro del suo leggendario “salto” per sfuggire ai tedeschi.

La seconda fu inviata sempre ad Anita, ma con il compito di farne una copia e farla recapitare a Pietro Secchia. Questa volta non fu una mera spiegazione, ma anche un atto d’accusa all’amico e compagno di lotta politica. In essa emergeva tutta l’amarezza e la disillusione per un Partito divenuto sempre più un’istituzione e sempre meno uno strumento di lotta: “Ho deciso dopo lunga ponderazione di fare questo passo estremo al solo scopo di contribuire a richiamare alla realtà, al buon senso e a maggiore senso di responsabilità chi si è assunto il compito di mettersi alla testa del Partito”. Erano anni complicati, nel PCI: la frattura tra Mosca e Belgrado aveva avuto ripercussioni anche in Italia, nel 1951 era avvenuta la scissione dei Magnacucchi – dal nome dei due “dissidenti”, Valdo Magnani e Aldo Cucchi – e la sensazione che il Partito fosse ormai ripiegato su posizioni staliniste che strozzavano ogni forma di dibattito e autonomia interna era molto forte. In tutta questa storia, Gianni Brera rivestì unicamente il ruolo di cui colui che ospitava il fuggiasco Nino. Di più non poteva fare, considerando che quel giorno riprendeva anche il Tour de France, il più importante evento sportivo dell’estate, con un’attesa tappa di montagna tra Lione e Grenoble.

Nei giorni successivi, il Nino lasciò la casa del giornalista G. B., riconoscente dell’aiuto datogli. Si incontrò poi con Secchia, che voleva recuperare i soldi e i documenti, dato che riaccogliere il “ladro” nel Partito era impensabile. Giulio Seniga non ne volle sapere: venne espulso dal PCI (ufficialmente, solo nel 1956) e si ritirò definitivamente a Milano con Anita, dove con i fondi moscoviti sottratti al Partito mise in piedi una piccola casa editrice indipendente e finanziò vari iniziative politiche della sinistra extraparlamentare, contestando il PCI e l’URSS. Prese in affitto un modesto appartamento in città, e per il resto della vita si riconobbe giusto uno stipendio da operaio specializzato, tenendo il resto dei soldi per le sue battaglie politiche. Il suo gesto non ebbe le conseguenze sperate, né sul Partito né sull’effettiva costituzione di un movimento italiano di sinistra alternativo allo stalinismo del PCI. L’unico cambiamento significativo che avvenne fu che i vertici politici incolparono Pietro Secchia di essersi fatto abbindolare da Seniga, e da grande esponente del Partito divenne tutt’a un tratto una figura marginale.

Non è chiaro se la storia del suo fugace reincontro con G. B. divenne nota già all’epoca. Fatto sta che appena un mese dopo aver dato riparo al Nino, Gianni Brera venne accusato dall’editore della Gazzetta di essere un simpatizzante comunista: la sua colpa fu di aver dedicato la prima pagina del 30 agosto al record mondiale sui 5.000 metri stabilito a Berna dal sovietico Vladimir Kuc. Brera, a quel punto si dimise, e poi nel 1956 venne chiamato a dirigere la redazione sportiva de Il Giorno, che in breve divenne estremamente popolare, affermandolo come la penna più prestigiosa del calcio italiano. Mentre questo succedeva, l’Armata Rossa invadeva l’Ungheria, creando grande dibattito all’interno del Partito Comunista. Nel 1958, mentre a Budapest si decideva di fucilare Imre Nagy e altri dissidenti, Giulio Seniga riuscì a introdursi alla Camera e lanciare in aria decine di volantini in cui accusava il PCI di essere complice con i “boia ungheresi”. Ma questa è un’altra storia.

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Fonti

CASTELLANI Massimiliano, Brera, il partigiano “Gianni”, Avvenire

GREGORI Claudio, La vera storia di Gianni Brera, giovane fascista e poi partigiano, La Provincia Pavese

LAZZARINI Carmine, Il mitico comandante partigiano che si rifugiò da Gianni Brera. Il cremonese Giulio Seniga aveva prelevato 421.000 dollari dai conti segreti del PCI, Cremona Sera

-SENIGA Giulio, Credevo nel partito. Memorie di un riformista rivoluzionario, BFS Edizioni

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