Quella di Freddy Adu è stata una storia di abusi su un minore

Chiunque abbia almeno trent’anni oggi ricorda il suo nome con un misto di romanticismo e fascinazione, ma pure un po’ di ironia. In Italia lo si scopre, per la precisione, a fine novembre del 2003, quando tutti i quotidiani – non solo quelli sportivi – titolano su questo ragazzo statunitense che a soli 14 anni ha già firmato un ricco contratto da professionista ed è pronto a diventare la nuova stella del calcio. Sull’altro lato dell’Atlantico, la fama è arrivata addirittura prima, e in un paese disperatamente alla ricerca di una propria stella nel soccer che piace tanto agli europei, Freddy Adu scomoda paragoni abbastanza ingombranti. Sono tutte promesse che – oggi lo sappiamo – non arriverà mai nemmeno lontanamente a mantenere, e adesso la sua storia rappresenta prima di tutto un grande abbaglio collettivo. Nessuno pare però aver mai provato a considerarla sotto un’altra luce, trovando il coraggio di guardare in faccia i tanti aspetti problematici che ha sollevato.

Partiamo dall’inizio: da dove esce fuori Freddy Adu? Innanzitutto non è statunitense, ma ghanese: è nato a Tema, una città sulla costa vicino alla capitale Accra, nel 1989, e si chiama realmente Fredua Koranteng Adu. I genitori, Maxwell ed Emilia, hanno un piccolo alimentari e un altro figlio più piccolo a cui badare. Freddy gioca a calcio per strada, e rapidamente sviluppa capacità tecniche fuori dal comune, facendo bella figura anche tra ragazzi più grandi di lui. Nel 1997, gli Adu vincono una lotteria – letteralmente – che mette in palio delle green card per gli Stati Uniti: si tratta di un programma che esiste dal 1990, chiamato Diversity Immigrant Visa, attraverso il quale gli USA attirano lavoratori stranieri, e che negli anni successivi solleverà molte polemiche perché soggetto a truffe e accusato di facilitare l’arrivo nel paese di potenziali terroristi. Gli Adu sono persone per bene, e arrivano a Potomac, nel Maryland, per lavorare duramente e guadagnarsi una vita migliore rispetto a quella che avevano in Ghana. Freddy inizia presto a giocare a calcio nella squadra della scuola, e ovviamente lascia il segno. Nel frattempo, suo padre Maxwell abbandona la famiglia, e la madre Emelia si ritrova a dover fare due lavori per mantenere i figli. Non sarà un dettaglio da poco.

Gli Stati Uniti di fine anni Novanta sono un paese in cui l’interesse per il soccer è in crescita, dopo i Mondiali del 1994. Nel 1996 è nato il nuovo campionato professionistico nazionale, la Major League Soccer, che dopo due anni si espande da dieci a dodici club partecipanti, e nel 1999 viene inaugurato a Columbus, Ohio, il primo stadio esclusivamente dedicato al calcio. Manca solo una stella, un Michael Jordan del pallone, e per adesso tutti puntano molto su Landon Donovan, trequartista californiano che gioca nelle giovanili di un club europeo, il Bayer Leverkusen, e che nel 2000, a soli 18 anni, esordisce con grande clamore nella nazionale maggiore. In questo contesto, il piccolo Freddy Adu inizia a far parlare di sé nel Maryland, e nel 2001 attira l’attenzione di tutti durante un torneo U14 a cui partecipano anche le squadre di pari età di Juventus e Lazio. In quel momento, per la prima volta il suo nome appare sulla stampa italiana: Ennio Caretto, corrispondente da Washington per il Corriere della Sera, rivela che secondo USA Today l’Inter ha fatto un’offerta per il giocatore. La notizia ha scarsa eco in Italia, ma le parole che Caretto riporta dai giornali americani sono impressionanti: “Freddy Adu è diventato il Pelè o il Maradona degli Stati Uniti. Chi l’ha visto in azione nel campionato giovanile statunitense, dice che potrebbe essere il più grande giocatore della storia, «un prodigio del calcio» come ha scritto ieri il Washington Post“. Giova ricordare che stiamo parlando di un bambino di 12 anni.

Ufficialmente, la madre Emelia risponde che il figlio non è in vendita, e che deve concentrarsi sugli studi. La verità è piuttosto che il sistema calcio statunitense non intende farsi scappare questo ragazzino: viene ammesso alla prestigiosa IMG Academy di Bradenton, Florida, cioè la più importante scuola sportiva del paese, la stessa in cui si è formato Donovan. Vengono fatti ponti d’oro per Freddy Adu, ed Emelia ha tutto l’interesse ad accettare: una green card è un bene prezioso, per chi arriva da un paese povero dell’Africa, perché in cinque anni ti dà diritto a fare richiesta di cittadinanza statunitense. È una madre single che fa due lavori per mantenere i suoi bambini, e di certo non intende abbandonare gli Stati Uniti per l’Italia, un paese di cui non conosce la lingua e in cui ottenere la cittadinanza è molto più difficoltoso. Tutta l’America la spinge a restare e a non portare via il suo preziosissimo bambino. All’inizio del 2003, la Nike le sottopone un contratto di sponsorizzazione per il figlio del valore di 1 milione di dollari: nessun immigrato africano è mai arrivato a guadagnare così tanto dopo pochissimi anni nel paese. Freddy Adu, in questo momento, ha 13 anni. Quasi in contemporanea, Emelia riceve il passaporto statunitense.

Non è un fotomontaggio: Freddy Adu, nemmeno maggiorenne, accanto a Pelé.

La questione della cittadinanza non era mai stata in discussione. Fin da quando, ancora bambino e ancora cittadino ghanese, Freddy Adu aveva iniziato a fare parlare gli Stati Uniti, la stampa locale lo aveva descritto come un tesoro nazionale. Il fatto che potesse teoricamente optare per rappresentare in futuro il Ghana non è mai stato nemmeno lontanamente considerato, e questo è il primo aspetto controverso della sua vicenda: di fatto, sfruttando il proprio appeal socio-economico, gli Stati Uniti hanno sottratto al Ghana un promettente sportivo non ancora maggiorenne. Per quanto sostenuta da progetti legislativi, questa situazione ha tutti i connotati del neocolonialismo. L’altro punto, come ormai dovreste aver capito, e che l’intero sistema mediatico-sportivo statunitense ha riversato su questo bambino immigrato una quantità di aspettative enormi, trasformandolo in una star prima ancora che entrasse nell’adolescenza. È una pratica in realtà diffusissima, nella storia americana recente, principalmente in relazione al mondo di Hollywood, con casi noti come Shirley Temple, Mickey Rooney e Judy Garland: tutti loro hanno vissuto storie di abusi psicologici di vario tipo, a causa della pressione ricevuta in giovanissima età.

Alla fine del 2003, da star nazionale diventa star globale: il DC United di Washington lo rende il più giovane calciatore professionista al mondo, a soli 14 anni. Subito dopo l’annuncio, Freddy Adu è ospite del David Letterman Show, e il giorno successivo sui giornali si leggono le parole del ct Bruce Arena, che dice che terrà d’occhio il giocatore in vista dei Mondiali del 2006. Per quella data, il talento ghanese avrà solo 17 anni. “C’è la possibilità che siamo di fronte alla nascita di un grande campione” aggiunge l’allenatore, dicendo di non avere timore sull’adattamento rapido di Adu al calcio dei grandi, un po’ come ha fatto in NBA in altro ragazzo molto giovane e promettente, LeBron James. Solo che James, che ha esordito tra i professionisti del basket nel 2003, di anni ne aveva 19, cinque in più del calciatore di origini ghanesi. “È un momento storico per noi. Freddy è il più forte talento giovane al mondo” commenta Don Garber, presidente della Federcalcio. C’è lui, dietro a tutta questa storia: US Soccer ha cavalcato fin da subito il fenomeno Adu, procurandogli sponsor, interviste, copertine, ricavando una copertura mediatica che il soccer non aveva avuto dai Mondiali del 1994. In tutto questo, il 14enne figlio di un’ormai ex-madre single che doveva fare due lavori per tenere in piedi la famiglia andrà a guadagnare tra 250.000 e 500.000 dollari all’anno: nessun calciatore negli Stati Uniti ha uno stipendio così alto.

Il suo nome si legge sulle prime pagine del Washington Post e del New York Times, sempre con toni celebrativi. In un suo articolo per Sport Illustrated, un gigante del giornalismo sportivo come Grant Wahl inanella una serie di paragoni illustri fatti da terzi sul talento di Tema: Pelé, Mozart, Michael Jordan, LeBron James, Michelle Wie, Carmelo Anthony. Lascia sbigottiti, leggere questi articoli a quasi vent’anni di distanza, e non perché poi Adu non è stato affatto ciò che si preannunciava, ma per il fatto che nessuno pareva rendersi conto che l’attenzione che si stava dedicando a quel ragazzino non poteva che essere dannosa per lui. Un intero sistema mediatico era franato, davanti al sogno di avere finalmente in casa la più grande star del calcio mondiale. Non va sottovalutato come in questi anni i media statunitensi avessero raggiunto un inquietante livello di fanatico patriottismo, sposando in pieno, anche negli ambienti tradizionalmente liberal, le guerre al terrore del Presidente Bush in Afghanistan e in Iraq. La volontà di affermare la potenza americana e la sua leadership globale dopo l’evento più traumatico della storia nazionale recente – l’11 settembre – sembra essere debordato dal recinto della politica a quello dello sport.

Non c’è un solo grande media americano che non racconti la storia di Adu senza ricorrere all’eccitazione tipica del racconto sportivo. Solo una giovane esperta di diritto, Jenna Merten, assistente del procuratore distrettuale di Milwaukee, mette in evidenza in un suo articolo, pubblicato sulla rivista della Marquette University, quanto sia problematico il caso del giovane calciatore. Un atleta adolescente come lui, spiega, viene sottoposto a un’enorme pressione psicologica da parte dei tifosi, dei compagni e dei media; deve dedicare diverse ore al giorno agli allenamenti e poi cimentarsi con atleti adulti, con un dispendio fisico enorme per un ragazzo della sua età, e sottraendo inoltre tempo agli studi. Questa situazione comporta un grosso rischio sia per la sua salute fisica che per quella mentale, oltre che per la sua formazione in quanto individuo e cittadino pienamente consapevole. A queste problematiche se ne aggiunge una più sociale: l’esempio che il caso Adu sta trasmettendo. Ovvero quello di un modello di successo professionale per ragazzini adolescenti e bambini, che può trasformarsi in una normalizzazione del lavoro minorile. Non è una cosa da poco, perché se è vero che la legge statunitense formalmente vieta il lavoro minorile dal 1938, un report governativo del 2001 stima che il 30% dei cittadini americani tra i 15 e i 16 anni abbia già un lavoro regolare. Nel 1944, solo il 4% dei sedicenni negli Stati Uniti era nella stessa condizione.

Adu durante un provino di due settimane al Manchester United, nel novembre del 2006.

La sua prima stagione, comunque, è piuttosto positiva, considerata l’età. Adu gioca quasi tutte le partite (anche se raramente per intero) e arriva a segnare 5 gol, mentre il DC United conquista il titolo nazionale. Ma inizia a farsi largo la convinzione che non sia ancora pronto per reggere il confronto fisico con gli adulti, e nell’annata successiva coach Peter Nowak lo relega sempre più spesso in panchina. E qui iniziano i problemi, perché a un adolescente a cui hai messo in testa da qualche anno che sarà il nuovo Pelé non è facile fare accettare una cosa del genere: Adu si lamenta pubblicamente perché l’allenatore gli concede poco spazio, e a ottobre 2005 viene temporaneamente sospeso dal club. Ma intanto le aspettative attorno a lui continuano a essere irresponsabilmente alte: nell’estate del 2005, FIFPro (cioè il sindacato internazionale dei calciatori, un’istituzione da cui ci si aspetterebbe maggiore attenzione a simili problematiche del mondo del lavoro) lo ha eletto Giovane calciatore dell’anno a livello globale, preferendolo a Wayne Rooney e Cristiano Ronaldo del Manchester United (entrambi di 20 anni), ad Arjen Robben del Chelsea (21 anni) e a Robinho del Santos (21 anni).

A gennaio del 2006, debutta nella nazionale maggiore degli Stati Uniti, in un’amichevole contro il Canada: tutti si ricordano le previsioni sul fatto che avrebbe potuto essere la stella degli USA ai Mondiali tedeschi di quell’estate, ma appare evidente che il suo livello è ancora lontano da quello richiesto dalla squadra. In Germania non ci va, e il suo rapporto con il DC United, dove non sta maturando come previsto, si complica. Alla fine dell’anno, il club lo cede al Real Salt Lake, una squadra che l’hanno precedente non ha nemmeno raggiunto i play-off. In estate fornisce una buona prestazione al Mondiale U20, e improvvisamente l’Europa si ricorda di Freddy Adu: arriva finalmente l’offerta a lungo attesa, e si trasferisce al Benfica. Ha 18 anni, un’età in cui di solito molti ragazzi giocano ancora nelle giovanili, ma da lui ci si attende molto di più, soprattutto in patria. Il contesto europeo, però, si rivela subito ben più difficile del previsto: nel suo ruolo, al Benfica c’è un veterano come Rui Costa, e se per gli americani Adu è almeno la grande promessa delle Águias, l’allenatore José Antonio Camacho è convinto che sia invece il 19enne argentino Ángel Di Maria. Lisbona dovrebbe essere l’inizio dell’ascesa del fenomeno americano, e invece ne sarà la fine.

Gioca poco e senza convincere. Per la stagione seguente ottiene una nuova occasione d’oro, in prestito al Monaco, ma anche qui non vede mai il campo. Prima di compiere 20 anni, la carriera di Freddy Adu assume una vertiginosa traiettoria verso il basso: Aris Salonicco, Belenenses, Rizespor, poi torna in patria col Philadelphia Union, va in Brasile col Bahia, poi addirittura in Serbia (Jagodina) e in Finlandia (prima al Kuopion Palloseura e poi al Kuopio Futis-98), quindi di nuovo negli USA (ma in seconda divisione, con i Tampa Bay Rowdies e poi con i Las Vegas Lights). Nel 2021, dopo tre anni senza giocare, trova un ingaggio nella terza serie svedese con l’Österlen FF, ma il trasferimento non viene terminato, perché la sua forma fisica non è ritenuta adeguata al livello della squadra. Capire cosa sia successo esattamente, in questi anni, non è semplice, ma sembra che gli avvertimenti lanciati da Jenna Merten fossero corretti. Adu ha visto complicarsi la sua carriera a causa dei sempre più frequenti problemi alla schiena, causati probabilmente dai duri allenamenti di quand’era giovane. Ma sembra anche che non abbia saputo mantenere la concentrazione mentale nel corso degli anni, adagiandosi sui sogni di grandezza prospettati per lui dai media, convinto che gli sarebbe bastato poco per essere il migliore. Di fatto, a nemmeno 20 anni la sua carriera era già finita, schiacciata dalle pressioni e da uno sviluppo psicologico disfunzionale, di cui nessuno si è mai assunto la responsabilità. Ancora oggi la sua storia viene raccontata come se fosse una comune promessa mancata o un talento discontinuo alla Balotelli, quando invece quella di Freddy Adu è stata una storia di abusi su un minore.

Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.

Fonti

BELL Jack, Adu, 14-Year-Old Striker, Leads U.S. Against the World, The New York Times

BOOTH Chuck, Freddy Adu reflects on challenges of his career: ‘You have all the talent in the world and it’s not enough’, CBS Sports

CARETTO Ennio, «I nerazzurri vogliono un dodicenne del Ghana» ma la società smentisce, Corriere della Sera

LA CANFORA Jason, Adu, 13, Become A U.S. Citizen, Washington Post

MERTEN Jenna, Raising a Red Card: Why Freddy Adu Should Not Be Allowed to Play Professional Soccer, Marquette Sports Law Review

ROMANI Riccardo, Adu, professionista a 14 anni, Corriere della Sera

WAHL Grant, Ready For Freddy? At 14, Freddy Adu is Already the Highest Paid and Most Celebrated Player in MLS. Now It’s Time for Him to Play His First Game, Sport Illustrated

1 commento su “Quella di Freddy Adu è stata una storia di abusi su un minore”

  1. Che poi, non so se agli americani questa storia abbia insegnato granché: con Giannis Antetokounmpo, in fin dei conti, hanno fatto qualcosa di simile, solo che lì “gli è andata bene” (a Giannis, prima che agli americani).

    "Mi piace"

Scrivi una risposta a gaberricci Cancella risposta