Storia dei cori da scimmia nel calcio

È brutto da dire, ma oggi questo è probabilmente il coro da stadio più diffuso al mondo, l’unico che ritroviamo in paesi diversi (principalmente in Europa) e che mantiene inalterate espressioni e ritmo a prescindere dal contesto. La stragrande maggioranza degli episodi di razzismo nel calcio lo vede come protagonista, ma una delle sue particolarità è che ancora oggi i media faticano a identificarlo con un termine preciso e calzante. Di recente, anche in Italia si è diffusa la definizione di “cori da scimmia”, ripresa dall’inglese monkey chants, che è quella che più si avvicina al significato di questi canti. Si tratta della replica dei versi di una grossa scimmia – pensiamo al verso baritonale di un gorilla, piuttosto che a quello più acuto di uno scimpanzè – urlati da un gruppo più o meno numeroso di tifosi quando un giocatore nero tocca palla. Il paragone razzista tra l’uomo nero e la scimmia, che gioca sul presunto “sottosviluppo” evolutivo dell’africano rispetto al bianco europeo, ha una lunga storia, eppure questo tipo di cori è divenuto popolare solo molto di recente nel mondo del calcio.

È difficile risalire all’origine precisa dei cori da scimmia nel mondo del pallone, ma le motivazioni per cui vengono adottati sono abbastanza palesi. Il vantaggio, per il tifoso razzista, nell’usare questa espressione è che essa non è esplicitamente discriminatoria, a meno di non conoscere bene il contesto che le sta attorno. Urlare “uh uh uh” quando un giocatore nero prende palla non rimanda direttamente al razzismo, almeno non come potrebbe essere l’uso inequivocabile della n-word o proprio della parola “scimmia”. Lo potremmo definire come un insulto in codice, che permette di esprimere razzismo senza incorrere facilmente in sanzioni, e con la possibilità di replicare a chi lo contesta che “uh uh uh”, in sé, non ha nulla di discriminatorio e che, in definitiva, “non si può più dire niente”. L’estrema destra non è nuova a questo tipo di strategie: fin dal secondo dopoguerra, e in particolare con la Nouvelle Droite degli anni Settanta, i militanti neofascisti e neonazisti hanno iniziato a ricorrere a codici indiretti per esprimere liberamente la propria ideologia, come ad esempio il famigerato numero 88.

Sebbene oggi, tra chi ha un minimo di conoscenza del razzismo nel calcio, i cori da scimmia rappresentino ormai un codice “craccato”, inizialmente si sono rivelati una strategia di grande successo. Basta guardare la confusione dei media in Italia – uno degli ambienti calcistici dove il problema del razzismo è tutt’oggi più serio e peggio affrontato dalle istituzioni – nel riferirsi a questi episodi. Qualche anno fa, quando questi cori hanno iniziato a venire segnalati negli stadi di Serie A, i giornali e le televisioni li riportavano come “buu razzisti”, riferendosi quindi a un classico verso di disapprovazione. E tuttavia bastava un semplice ascolto dai sempre più frequenti video che circolavano sui social per rendersi conto che i tifosi in questione non stavano certo dicendo “buu” ma qualcos’altro. Si è quindi diffusa una seconda terminologia, gli “ululati razzisti”, che però presenta il medesimo problema: cosa ci sarebbe di razzista in un ululato, cioé nel verso più comunemente associato al lupo? Entrambe queste definizioni si ritrovano ancora oggi sui media in riferimento agli episodi più recenti, sebbene “cori da scimmia” – o più banalmente “cori razzisti” – stiano fortunatamente prendendo piede. Le difficoltà dei media nell’inquadrare correttamente questo fenomeno sono un segno indiscutibile della sua efficacia.

Ma questo tipo di discriminazioni sembrano essere un fenomeno relativamente recente del calcio italiano, ed europeo in generale. Il razzismo nel mondo del pallone è un fenomeno antico, ma è sempre stato espresso in maniera molto diversa. Il caso Ferrier, nel 1996, è un ottimo esempio: i tifosi dell’Hellas Verona accolsero la notizia del suo arrivo impiccando un manichino nero con la maglia scaligera da una balaustra del Bentegodi, mentre i due autori si mascheravano sotto dei costumi del Ku Klux Klan. Nel 2001, quando Akeem Omolade esordì nel Treviso, gli ultras veneti ritirarono gli striscioni e abbandonarono lo stadio per protesta. Nel 2005, Marc André Zoro del Messina minacciò di abbandonare il campo perché dalla curva interista gli avevano urlato contro “ne*ro di merda”. Come si può notare, si tratta di episodi molto più palesi, figli anche di una società non abituata a confrontarsi col razzismo. Solo in seguito si è deciso di ricorrere a discriminazioni dissimulate o a delle vere e proprie giustificazioni, come gli insulti contro Balotelli o Vinícius Jr., spiegati dal presunto atteggiamento provocatorio dei due attaccanti nei confronti degli avversari.

Il caso Ferrier: abbastanza inequivocabile.

Non è semplice, come si diceva, risalire all’origine dei cori da scimmia. Con le nuove tecnologie, dagli smartphone ai social network, è diventato facile oggi pubblicare direttamente online i video che provano questi episodi, per cui ognuno può ascoltare e appurare di cosa si tratta. Precedentemente, ci si doveva affidare alle cronache giornalistiche, che però, come abbiamo visto, sono spesso imprecise nell’indicare che tipo di coro discriminatorio è stato effettuato. Davanti a un vecchio articolo che parla di razzismo in uno stadio, può capitare di trovarsi di fronte a una terminologia generica come appunto “cori razzisti”, che non ci aiuta a capire il tipo di discriminazione utilizzata. Inoltre, più si va indietro nel tempo più ci si muove in un contesto in cui questo genere di discriminazioni, se e quando avvenivano, non facevano notizia. Anche quando vengono riportati dei monkey chants, in assenza di descrizioni più approfondite non è detto che stiamo parlando dello stesso tipo di cori tanto diffusi negli ultimi anni. Questa premessa è necessaria per capire che siamo di fronte a un fenomeno passato a lungo sottotraccia.

Ad ogni modo, una ricerca online un po’ approfondita può aiutare almeno a delineare una storia approssimativa del fenomeno. Sembra che la sua origine sia nell’Europa occidentale, anche se non mancano episodi in quella orientale: nel 2007, Karim Guedé dell’Artmedia Bratislava fu vittima di cori da scimmia da parte dei tifosi dello Slovan; un anno prima, la stessa cosa accadde in Russia ad Antônio Géder del Saturn contro lo Zenit San Pietroburgo. Anche in Germania si è registrato un caso simile nel 2006, con Adebowale Ogungbure del Sachsen Lipsia, offeso dai tifosi dell’Hallescher. Già nel 2005, questi cori erano stati utilizzati dagli ultras della Kop de Boulogne, tifosi del PSG, contro i giocatori del Lens, scesi in campo con una squadra composta da undici neri. Nel novembre 2004 si è però svolto uno degli episodi più significativi della nostra storia: diversi giocatori dell’Inghilterra, in particolare Shaun Wright-Phillips e Ashley Cole, furono bersaglio di cori da scimmia da parte del pubblico spagnolo durante un’amichevole al Santiago Bernabéu. La UEFA aprì un’indagine e punì la Federcalcio iberica con 87.000 dollari di multa, e in più scoppiò un caso diplomatico, con il governo Blair che attaccò duramente la Spagna per l’accaduto e la Football Association che da allora si è sempre rifiutata di tornare a giocare a Madrid.

L’episodio spagnolo del 2004 fece scalpore perché coinvolse noti giocatori e due importanti squadre nazionali: era quindi un match ad alta visibilità, decisamente il più visibile tra i casi citati finora ma anche tra quelli che erano avvenuti in precedenza. Perché in effetti Madrid 2004 è stato solo la grande ribalta internazionale dei monkey chants, per quello che è possibile ricostruire, e a questo episodio avevano contribuito diversi fattori, come vedremo più avanti. Ad ogni modo, già nel 1990 in Francia questi cori avevano iniziato a fare capolino negli stadi: il portiere del Bordeaux Joseph-Antoine Bell aveva ricevuto questo tipo di discriminazioni – oltre ad altri insulti razzisti e anche al lancio di banane – da parte dei tifosi dell’Olympique Marsiglia. Potrebbe non essersi trattato del primo caso nel calcio francese, però, dato che da quel momento in avanti alcuni club iniziarono a pensare a contromisure per il razzismo negli stadi, segno che probabilmente il caso Bell fu solo la punta dell’iceberg. Andando più indietro nel tempo, però, sembra che si possa collocare l’origine dei cori di scimmia in Inghilterra.

Nel 1977, Cyrille Regis del West Bromwich Albion dovette confrontarsi con il fenomeno durante una partita contro il Newcastle, che era stata il suo debutto in trasferta nel calcio professionistico. Successivamente, Regis raccontò che questo tipo di abusi divennero molto frequenti nei suoi confronti. Già tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Clyde Best e Ade Coker del West Ham furono spesso vittime di cori da scimmia. I loro, al momento, sembrano essere i due casi più vecchi riportati dai media, anche se certamente episodi razzisti, espressi in maniera differente, era già diffusi nel calcio europeo. Perché questi cori siano emersi per la prima volta nell’Inghilterra della fine degli anni Sessanta è un altro argomento interessante. Best accusò in particolare il National Front, una formazione politica neofascista che proprio in quel periodo iniziò a infiltrarsi e a fare proseliti negli spalti degli stadi di calcio. La connessione fatta da Best è abbastanza credibile: sebbene oggi sia in gran parte dimenticato, il NF è stato un modello per la nuova destra europea, per la sua capacità di adottare spesso un linguaggio e un approccio diversi, ponendo il tema della normalizzazione della destra come un atto di libertà d’espressione democratica.

Clyde Best, originario di Bermuda – un possedimento britannico nel Nord Atlantico – è stato uno dei primi grandi giocatori neri del calcio inglese, militando nel West Ham tra il 1968 e il 1976.

Il fenomeno dei monkey chants sembra nascere non più tardi della fine degli anni Sessanta in Inghilterra, si sviluppa nel decennio successivo e negli anni Ottanta si trasmette di sicuro almeno al calcio francese. Dopodiché sembra ridursi o quasi scomparire fino a Spagna-Inghilterra del 2004, evento dopo il quale gradualmente questi cori iniziano a spuntare più o meno in tutta Europa, fino a diventare la principale espressione razzista nel calcio dell’ultimo lustro. Cosa succede tra il 1990 e il 2004 è un altro aspetto che merita un approfondimento. Come abbiamo visto, sia in Francia che, poco prima, in Inghilterra, le federazioni e i club iniziano a reagire al razzismo negli stadi: questo può essere uno dei motivi della contrazione degli episodi in questi paesi (anche se di certo il problema non sparisce del tutto). La successiva emersione dei cori da scimmia nell’Europa sud-occidentale (Spagna e Italia) si deve probabilmente all’aumento dell’emigrazione africana in questi paesi e il parellelo aumento della presenza di calciatori africani nei campionati, mentre vanno crescendo anche i partiti della destra populista. L’estrema destra razzista diventa rilevante nella politica italiana solo con il 17,4% della Lega alle elezioni del 2018, mentre in Spagna questo avviene con Vox nel 2019: in Francia, invece, il Front National raggiunse il 15% dei voti alle presidenziali nel 1995, e sette anni dopo Jean-Marie Le Pen sfidava Chirac al ballottaggio.

Il contesto politico nazionale è dunque estremamente rilevante. Sebbene il razzismo sia sempre esistito, nelle sue varie forme, tifo calcistico e propaganda politica hanno rappresentato strumenti di legittimazione delle sue espressioni pubbliche, alimentandosi a vicenda. Comprendere il reale motivo della riemersione dei monkey chants nella Spagna del 2004 è difficile, date le informazioni al momento disponibili. Una teoria è che potrebbe essere legato al tipo di avversario di quella partita: dovendo insultare gli inglesi, e in particolare i neri dell’Inghilterra, i tifosi spagnoli potrebbero aver scelto di rievocare un tipo di coro discriminatorio che questi potevano conoscere e identificare facilmente al di là della barriera linguistica e culturale. Plausibile, anche se lascia degli spazi vuoti e inspiegati: perché non erano già stati fatti gli stessi cori anche negli incroci nelle coppe europee? Come hanno fatto i monkey chants ad arrivare in Spagna dopo una fase piuttosto lunga di declino nel Regno Unito? In parte, un’ulteriore risposta potrebbe essere la polemica scoppiata sui media britannici nei giorni precedenti alla partita per gli insulti razzisti del ct iberico Luis Aragonés nei confronti di Thierry Henry, chiamato “ne*ro di merda” in un colloquio in allenamento (ripreso però dalle tv) con José Antonio Reyes.

L’insulto razzista del tecnico e i successivi attacchi subiti dai rivali inglesi avevano probabilmente creato un contesto ideale, per una parte del tifo spagnolo, per reagire in difesa del proprio allenatore replicandone gli atteggiamenti. Un comportamento non così diverso dall’innesco dei più recenti insulti discriminatori contro Vinícius Jr., che prima sono stati legittimati dal procuratore Pedro Bravo nel programma tv El Chiringuito, e il giorno dopo replicati dal tifo dell’Atlético Madrid fuori dallo stadio, prima del derby col Real. Dal 2004 in avanti, comunque, questi episodi hanno iniziato a diventare via via più frequenti in varie zone d’Europa, anche se è solo negli ultimi cinque o sei anni che il fenomeno ha raggiunto la massima visibilità, almeno in Italia. Se ci sia stato un nuovo evento d’innesco più recente, però, al momento non è chiaro, e probabilmente rispondere a questo quesito richiederà ulteriori e più approfonditi studi.

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