L’israeliano che ha plasmato il calcio moderno in Europa

Il trasferimento di Rio Ferdinand dal Leeds United al Manchester United, nel luglio 2002, è uno di quelli che scuote il calciomercato europeo. Ferdinand ha 24 anni ed è considerato uno dei migliori difensori al mondo e arriva alla corte di Alex Ferguson per sostituire il veterano Denis Irwin, che ha lasciato i Red Devils dopo dodici anni di militanza. Lo United paga 30 milioni di sterline per il centrale del Leeds, facendone il giocatore britannico più costoso della storia e anche il difensore più caro di sempre. Alla cifra, i Red Devils aggiungono però anche 1,13 milioni di sterline di commissione, che vanno a un uomo che sta iniziando a farsi notare nel mondo del football: è un 47enne israeliano di nome Pini Zahavi. I tifosi inglesi lo conoscono pochissimo, ma è una delle figure più influenti del calcio europeo e una sorta di deus ex machina del mondo dei trasferimenti.

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Un calciatore nelle prigioni di Israele

Il 22 luglio 2009, Mahmoud Sarsak sta guidando verso il suo grande sogno: la sua prima importante occasione da calciatore professionista. Ha 22 anni, gioca come attaccante – prevalentemente centravanti, ma a volte anche da ala destra, per via della sua rapidità – e a soli 14 anni ha debuttato nel campionato della Striscia di Gaza con il Rafah Sports Club, diventando il più giovane giocatore di sempre nella competizione. Le voci riguardo al suo talento si sono diffuse rapidamente, arrivando fino alla sede della Federcalcio a Ramallah, in Cisgiordania: Sarsak ha iniziato a giocare nelle selezioni giovanili palestinesi, poi nella Nazionale olimpica, e di recente ha debuttato anche con la squadra maggiore. Pochi giorni fa, ha ricevuto una proposta di contratto professionistico dal Markaz Balata, un club del campionato della Cisgiordania, e si è messo in viaggio per raggiungere la sua squadra. Ma Mahmoud Sarsak non arriverà mai a Balata: il 22 luglio 2009 viene arrestato dalle autorità israeliane.

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Il calcio europeo sta invertendo la rotta su Israele. Ma servirà a qualcosa?

Il 13 agosto, durante la Supercoppa europea tra PSG e Tottenham, la UEFA ha portato in campo un messaggio che recitava: “Basta uccidere i bambini, basta uccidere i civili”. Anche senza espliciti riferimenti, è stato chiaro a tutti che si stava parlando del massacro in corso in Palestina. Solo pochi giorni prima, la stessa UEFA aveva inaspettatamente pubblicato sui social un ricordo di Suleiman Al-Obeid, il cosiddetto “Pelé palestinese”, ucciso in un attacco israeliano mentre era in fila per gli aiuti umanitari. Anche in quel caso non c’era alcun riferimento alle circostanze della sua morte, ma pochi hanno sottolineato l’importanza politica di quel piccolo gesto: la UEFA aveva chiaramente fatto qualcosa di irrituale, commemorando la morte di un giocatore che non aveva nulla a che fare con il calcio europeo, cioè con il suo ambito di competenza.

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C’è un St. Pauli che sta con la Palestina

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Qualcosa si è rotto irrimediabilmente nella galassia di sinistra del calcio internazionale, nell’ottobre del 2023. La faida Celtic-St. Pauli sul supporto alla Palestina ha compromesso – forse per sempre – l’immagine di quello che fino ad allora era considerato il club più a sinistra al mondo. Gli Ultras Sankt Pauli, il principale gruppo del tifo amburghese, non sono certo l’unica formazione ultras in Germania ad avere una posizione contraddittoria su Israele, ma mentre altre hanno preferito evitare di schierarsi pubblicamente gli USP hanno ingaggiato una vera e propria guerra a distanza con la Green Brigade del Celtic Glasgow. La conseguenza è stata che molti fan-club internazionali del St. Pauli, a partire da quello della città scozzese, hanno deciso clamorosamente di sciogliersi. Da allora, il St. Pauli si è conquistato la triste fama di club sionista, perdendo molta della popolarità che aveva all’estero. Eppure, sebbene poco visibile e raccontata, una sua parte non ha mai abbandonato la causa palestinese.

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Un anno di calcio e guerra in Palestina

Il 13 ottobre 2023, sei giorni dopo gli attacchi di Hamas e l’immediato inizio dei bombardamenti israeliani, l’IDF iniziava l’invasione della Striscia di Gaza. Nei dodici mesi successivi abbiamo assistito al contatore dei morti che saliva, a quello dell’umanità che scendeva, a parole dei governi internazionali che quasi mai sono andate a combaciare coi fatti. E, in tutto questo, il calcio non è potuto restare indifferente a quello che è solamente l’ultimo capitolo di una delle più lunghe tragedie della storia contemporanea, con buona pace di chi crede che lo sport e la politica debbano restare separati. Quello che segue è un tentativo di razionalizzare i fatti principali di quest’anno dal punto di vista calcistico, il giorno prima della discussa trasferta di Israele a Udine contro l’Italia, prima della quale nella città friulana si terrà un corteo di protesta (dopo che il 5 ottobre una manifestazione per la Palestina a Roma è stata teatro di repressione e di scontri con la polizia).

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Cosa significa giocare a calcio da arabi in Israele

Proprio nei minuti finali della gara contro l’Italia, con un tiro preciso e inaspettato il centrocampista Mohammad Abu Fani ha trovato il gol della bandiera per Israele, nella seconda gara del girone di Nations League. Al di là dell’aspetto puramente sportivo – e scarsamente rilevante in termini di risultato – questo gol ha avuto un peso soprattutto per via del suo autore, un mediano di 26 anni di origini arabe. Abu Fani è solo l’ultimo esempio di calciatore arabo nato e cresciuto in Israele e che ha deciso di rappresentare la selezione di Tel Aviv, con una scelta che a molti può risultare incomprensibile – se non proprio criticabile – visto ciò che da un anno sta accadendo nella Striscia di Gaza, e in generale visti i rapporti storici tra Israele e Palestina. Eppure le storie dei calciatori arabi-israeliani meritano di essere riportate nella loro interezza, perché raccontano molti aspetti di questo confitto etnico: a volte celebrati in quanto simboli di integrazione, ma in buona sostanza ignorati quando denunciano il razzismo subito; idoli dei tifosi arabi che vivono in Israele, ma allo stesso tempo anche guardati con sospetto dai palestinesi d’oltre confine e da chi ne sostiene la causa.

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Israele verrà davvero sospeso dalla FIFA?

Lo scorso 17 maggio, Gianni Infantino è riuscito a mettere la palla in corner. Sappiamo tutti che evitare un gol, però, non significa automaticamente non subire gol nel prosieguo della partita, né tantomeno uscire vincitori dall’incontro. Nonostante questa grande giocata, il momento della verità è solo rimandato. Stiamo parlando del voto sulle sanzioni alla Federcalcio israeliana IFA, richieste da tempo dalla PFA, cioè l’omologa palestinese, e appoggiate dai vertici della AFC, la confederazione asiatica. Al Congresso della FIFA di metà maggio si sarebbe dovuto votare a questo proposito, ma Infantino è riuscito a prendere tempo, annunciando che la questione verrà affidata a un comitato di esperti legali e discussa nuovamente in un Congresso straordinario fissato per il prossimo 20 luglio. La decisione, dunque, è solo rimandata di pochi mesi, comprensibilmente dopo gli Europei.

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Una mappa del tifo politico del calcio in Israele

Giovedì sera un gruppo di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in trasferta ad Atene per una gara di Conference League contro l’Olympiakos, ha aggredito una persona che sembra portasse con sé una bandiera palestinese. Il fatto ha riportato l’attenzione sulla politicizzazione del calcio in Israele, un argomento generalmente poco conisciuto in Europa se non per alcuni casi eclatanti, come quello dell’Hapoel Tel Aviv (per via del noto gemellaggio col St. Pauli) e quello, di segno ideologico totalmente opposto, del Beitar Gerusalemme. In realtà la mappa del tifo politico in Israele è ben più variegata, e per certi versi anche molto distante dallo stesso fenomeno in Italia e in buona parte dell’Europa, dove di solito i club di primo piano sono quelli coi tifosi ufficialmente meno schierati. In Israele, invece, sono proprio le squadre più seguite quelle che hanno le caratterizzazioni politiche più evidenti.

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Perché Israele non gioca la Coppa d’Asia

La recente impresa della nazionale palestinese, che per la prima volta nella storia ha superato la fase a gironi della Coppa d’Asia, ha portato molti tifosi a domandarsi come mai a questa competizione non partecipi anche Israele, che geograficamente è un paese mediorientale. Com’è noto, la federazione ebraica fa parte della UEFA, la confederazione europea: disputa le qualificazioni agli Europei, si gioca la qualificazione ai Mondiali tra le nazionali del Vecchio Continente, e i suoi club competono regolarmente nei tornei UEFA. La ragione di questa stranezza è facilmente intuibile alla luce del lungo conflitto israelo-palestinese, ma non è sempre stato così, anzi: fino al 1968, Israele si era sempre piazzato sul podio della Coppa d’Asia, vincendola anche nel 1964, e la sua unica presenza ai Mondiali, nel 1970, era stata proprio in rappresentanza della confederazione asiatica AFC. Il punto di svolta nella storia del calcio israeliano si è verificato nel 1974, ma le radici di questo evento sono chiaramente molto complesse.

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Israele, Palestina e le contraddizioni politiche del calcio europeo

Il conflitto israelo-palestinese dura da decenni, eppure nel 2023 sembra aver raggiunto un livello di intensità del dibattito mai visto prima. La prospettiva del mondo del calcio non può che essere molto parziale e riduttiva rispetto alla complessità di ciò che sta avvenendo, ma può almeno fornire un piccolo esempio di come questo dibattito si sia radicalizzato, mettendo in crisi molti dei principi politici e dei valori che la società occidentale (e il suo sport) hanno sempre vantato. La tanto decantata separazione tra sport e politica si è infatti rivelata una volta di più del tutto inadeguata a rispondere alle necessità della società contemporeanea.

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