Il calcio italiano è in guerra coi suoi tifosi

“Qui si tratta di capire se vogliamo l’uovo oggi o la gallina domani. Chi sviluppa una property sportiva ha l’obbligo di pensare a 5-10 anni e dobbiamo fare né più né meno quello che hanno fatto da sempre le grandi leghe americane. Se si vuole diventare una Lega internazionale si deve avere il coraggio di fare scelte impopolari”. Con queste parole, dette a Cronache di Spogliatoio in un’intervista pubblicata lunedì scorso, l’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo ha spiegato che, nonostante le proteste, il piano per portare Milan-Como del prossimo febbraio a Perth non solo andrà avanti, ma che è pure la cosa corretta da fare. Soprattutto, per la prima volta l’uomo che gestisce il massimo campionato professionistico italiano ha messo in chiaro un aspetto centrale della sua gestione: la Serie A non deve pensare agli interessi dei suoi tifosi.

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Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso

Quando, la scorsa settimana, diedi il titolo al precedente articolo sul caso Acerbi, temevo di avere forzato un po’ troppo i toni: “Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi”. Sette giorni dopo, sembra però evidente che quella frase era stata fin troppo generosa, e soprattutto mi sono ritrovato senza più un titolo così adeguato per questa necessaria seconda parte. Qui non intende tornare nel merito di ciò che è successo in campo e della sentenza, perché il Giudice Sportivo ha preso una decisione definitiva. Prove video, audio o altre testimonianze non ce ne sono, per cui non ho elementi per discutere l’assoluzione del difensore dell’Inter. C’è però tutto un contorno di questa videnda che dimostra molto chiaramente come la questione del razzismo sia intrinsecamente inaffrontabile nel calcio italiano. E il problema è prima di tutto informativo ed educativo: nel senso che la maggior parte della gente che dovrebbe conoscere il fenomeno pare invece essere la meno informata a riguardo.

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