Le donne del Torino

Gli anni Settanta sono l’epoca degli striscioni. Gli stadi italiani si riempiono rapidamente di questi strani e insoliti manufatti, marcati da nomi di battaglia che rivendicano la nascita di un nuovo modo di tifare. Ma ce n’è uno, a Torino, che è diverso da tutti gli altri, posto proprio accanto a quello degli Ultras Granata: S.L.A.S. Donne Ultras. Le donne, allo stadio, non sono mai mancate, neppure in curva, ma sono di solito una presenza marginale, spesso accompagnano un fidanzato ultras e, pur partecipando al tifo, restano figure di secondo piano. Nella Curva Maratona, invece, un piccolo gruppo di ragazze è diventato gradualmente influente tra gli ultras maschi, fino a conquistarsi un proprio spazio e il diritto di esporre uno striscione. Negli anni della seconda ondata femminista, anche gli spalti degli stadi sono diventati terreno di lotta politica ed emancipazione.

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Non si può fare a meno dei giornalisti tifosi

“Chi fa il tifoso, chi dimostra di non essere imparziale o di dare giudizi in qualche modo condizionati anche solo da simpatie o antipatie, verrà giudicato editorialmente inadatto a ricoprire il ruolo di inviato, o ad andare in onda, o ad avere responsabilità in redazione”. Con questa lettera, resa pubblica lunedì scorso da Lettera43, il direttore di Sky Sport Federico Ferri ha redarguito l’intero gruppo di lavoro, dopo l’episodio dei due stagisti sorpresi a esultare in diretta per un gol dell’Inter. “Non siamo fans ma giornalisti” avverte Ferri, precisando che “quei malcapitati ragazzi non sono gli unici”. Ma la verità è che queste parole suonano come un tentativo di chiudere il recinto quando i buoi sono scappati: se si vuole impedire ai giornalisti sportivi di comportarsi da tifosi, è ormai troppo tardi.

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Il calcio italiano è in guerra coi suoi tifosi

“Qui si tratta di capire se vogliamo l’uovo oggi o la gallina domani. Chi sviluppa una property sportiva ha l’obbligo di pensare a 5-10 anni e dobbiamo fare né più né meno quello che hanno fatto da sempre le grandi leghe americane. Se si vuole diventare una Lega internazionale si deve avere il coraggio di fare scelte impopolari”. Con queste parole, dette a Cronache di Spogliatoio in un’intervista pubblicata lunedì scorso, l’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo ha spiegato che, nonostante le proteste, il piano per portare Milan-Como del prossimo febbraio a Perth non solo andrà avanti, ma che è pure la cosa corretta da fare. Soprattutto, per la prima volta l’uomo che gestisce il massimo campionato professionistico italiano ha messo in chiaro un aspetto centrale della sua gestione: la Serie A non deve pensare agli interessi dei suoi tifosi.

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Roberto Baggio e la guerra civile

Il 17 maggio 1990, il giorno dopo la fine della stagione, viene sganciata la bomba che dà inizio alla guerra: Roberto Baggio, il 23enne fenomeno della Fiorentina, si trasferisce alla Juventus per 25 miliardi di lire. È un acquisto di cui si parla da mesi, ma che ha generato polemiche e proteste piuttosto accese da parte dei sostenitori viola: mai prima d’ora un’operazione di calciamercato in Italia aveva incendiato così gli animi. E, quando Baggio è ufficialmente un giocatore bianconero, Firenze esplode. In un mondo denso di iperboli guerresche come quello del calcio, questa volta le parole sono tremendamente appropriate: alle 18.30 cinquecento persone si riuniscono in piazza Savonarola, dove ha sede la Fiorentina, e iniziano a scagliare monetine e ghiaia contro l’edificio. La polizia, colta di sorpresa, è in forte inferiorità numerica: i soli quindici agenti presenti sul posto si riparano dietro le vetture e rispondono lanciando dei lacrimogeni per disperdere la folla, poi iniziano a sfoltire i tifosi a suon di manganellate. L’altra parte ripiega, raggiunge un vicino cantiere, mette mano ai sanpietrini e contrattacca. La polizia chiama i rinforzi. È il caos.

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Appunti sparsi per una storia sociale del calciomercato

Non c’è estate senza calciomercato. In queste settimane è tutto un fiorire di analisi, indiscrezioni, colpi di scena e opinioni tattiche; eppure paradossalmente il calciomercato in sé è uno dei fenomeni meno studiati e analizzati del calcio contemporaneo. Chi ha provato a fare qualche lavoro più approfondito su questo tema, ha finito sempre per fermarsi sulla superficie: la storia del calciomercato come la storia dei trasferimenti dei giocatori, delle cifre di cartellini e stipendi, dei metodi di contrattazione, dei club e dei campionati dominanti. Mentre invece la parte più interessante e suggestiva è un’altra: il calciomercato come storia di chi i trasferimenti di giocatori li racconta, dei metodi e dei canali che i giornalisti hanno usato e usano per parlarne. Perché acquisti e cessioni esistono da quando esiste il calcio (prima ancora del professionismo), ma solo di recente il calciomercato è diventato davvero un fenomeno culturale pervasivo.

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Sócrates in Italia

Il suo arrivo in Italia è roboante: la Fiorentina ha accettato di versare 5 miliardi di lire al Corinthians, e di darne più di uno a stagione al giocatore. Sono cifre impressionanti, anche se perfettamente in linea con la folle estate del calciomercato del 1984, in cui l’Inter ha sborsato 8,5 miliardi al Bayern per Rummenigge e il Napoli ha raggiunto i 13 miliardi per strappare Maradona al Barcellona. La Fiorentina è un club ambizioso, e per questo ha deciso di non badare a spese pur di assicurarsi uno dei migliori centrocampisti al mondo e uno dei calciatori più discussi a livello globale, per il suo insolito atteggiamento da intellettuale. Sócrates ha 30 anni, è il leader del Brasile e in patria è molto conosciuto per essere un oppositore politico del regime militare e uno dei fautori del curioso progetto di autogestione del Corinthians – la Democracia Corinthiana – che ha portato in dote al club paulista due titoli statali.

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Come Luciano divenne Eriberto, e poi tornò Luciano

Lo chiamano il “Chievo dei miracoli”. È una piccola squadra di un quartiere di Verona, al primo anno di Serie A della sua storia, ma gioca bene e dopo otto giornate è da sola prima in classifica. In campo ci sono illustri sconosciuti che stanno però iniziando a farsi un nome nel calcio italiano: Simone Lanna, Bernardo Corradi, Federico Cossato, Simone Perrotta, Massimo Marazzina, Cristiano Lupatelli, Eugenio Corini. Li allena un friulano di nome Luigi Delneri, pure lui alla prima esperienza in A, dopo una carriera passata soprattutto in C2: gioca con un 4-4-2 semplice ed efficace, che valorizza il gioco in verticale e il talento dei suoi due esterni di centrocampo, Christian Manfredini ed Eriberto. Quest’ultimo, brasiliano di 22 anni, è il fiore all’occhiello del Chievo, e si prevede già possa essere uno degli uomini mercato dell’estate del 2002. C’è solo un problema: Eriberto, in realtà, non è il suo nome e non ha 22 anni, ma 26.

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La Juventus e la rivoluzione

La storia è la seguente. È un lunedì mattina di grande fermento, a Botteghe Oscure, la sede del Partito Comunista Italiano a Roma. Si dev’essere probabilmente da qualche parte tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, ma nessuno ha mai riportato alcuna data. A tenere banco è un infervorato Pietro Secchia, il responsabile della propaganda del partito e uno degli esponenti comunisti più radicali. Secchia ha un programma politico ben preciso: il PCI deve innanzitutto organizzare una rivoluzione, se necessario anche armata, per rovesciare il governo conservatore filo-americano e imporre al potere il socialismo di stampo sovietico. Tutti, nel partito, conoscono le sue posizioni, anche se gran parte del PCI ora è più favorevole a una politica di integrazione pacifica col sistema democratico. A guidare questa fazione è il segretario generale Palmiro Togliatti, che secondo la storia, stanco della ben nota retorica di Secchia, gli rivolge una domanda provocatoria: “Cos’ha fatto ieri la Juventus?”. Secchia ammutolisce e, da non appassionato di pallone, non sa che rispondere, così Togliatti lo incalza: “E tu pretendi di fare la rivoluzione senza conoscere i risultati della Juventus?”.

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Il calciatore che uccise Mussolini

La mattina del 27 aprile 1945, una colonna motorizzata tedesca in fuga oltre confine venne fermata da un posto di blocco partigiano nei pressi di Dongo, lungo le sponde della parte settentrionale del lago di Como. I partigiani della 52a Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” acconsentirono a lasciare passare la colonna solo dopo una perquisizione. Un guerrigliero di 37 anni, conosciuto come Pietro Gatti, avvertì il comandante nazista che il ponte della Vallorba e il ponte del Passo erano stati minati, e che non c’era modo di passare senza il consenso dei partigiani: non era vero, ma bastò a convincere i tedeschi a lasciar perquisire i mezzi. In un camion Urbano “Bill” Lazzaro riconobbe Benito Mussolini, nascostosi sotto una coperta e mascherato con una divisa della Wehrmacht, codardo in fuga assieme alla sua amante Claretta Petacci e a sei ministri della Repubblica Sociale Italiana. La colonna tedesca proseguì senza quegli otto.

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