“Football is Coming Home”: ma l’Inghilterra è davvero la patria del calcio?

Ogni volta può essere la volta buona per vedere il calcio tornare a casa. L’Inghilterra insegue questo sogno dal 1966 – anche se lo slogan Football comes home, con tutte le sue possibili varianti, risale appena al 1996 – quello di tornare a vincere un torneo internazionale dopo il Mondiale casalingo di Banks, Moore e Charlton (almeno a livello maschile: le donne sono campionesse d’Europa in carica). Come una sorta di “destino manifesto” britannico in salsa sportiva: qui è nato e qui ne siamo proprietari di diritto; gli altri ne possono essere al massimo dei gestori. Nazionalismo sportivo, se vogliamo proprio vogliamo dirla tutta. Un’Inghilterra ormai decadente, privata di quell’impero (convenzionalmente detto “britannico”, ma in realtà sempre inglese) che per quasi quattro secoli ne è stato l’immagine e il vanto, a cui oggi non resta che il pallone a cui aggrapparsi come simbolo identitario e mito fondante della Englishness. Ma quanto c’è di vero sotto tutta questa retorica? In realtà, meno di quanto si pensi.

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Come l’Italia sta diventando una periferia del calcio

Rieccoci qui, circa due anni e tre mesi dopo la Macedonia del Nord. L’Italia del pallone sembra bloccata in un perverso loop temporale in cui il tempo passa, i nomi cambiano ma tutto resta più o meno sempre uguale. Sui media già tornano a vorticare tutte le retoriche che già conosciamo: ci sono troppi stranieri in Serie A; non si crede abbastanza nei giovani; c’è una grave crisi tecnica; i giovani non giocano più per strada… I discorsi sono sempre gli stessi da tempo, e la sensazione è che anche questa volta si parlerà molto prima di trovare l’alibi giusto che permetterà al calcio italiano di rinviare ancora una volta una riforma radicale, che vada dai vertici della FIGC al modo in cui vengono allenati i settori giovanili a livelli più bassi della piramide. Perché la verità è che la crisi dell’Italia non è un problema del 2024, nemmeno del 2018, ma almeno del 2014. Solo che in questi anni abbiamo avuto la sventura di riuscire a nasconderla in almeno due occasioni (l’Europeo di Conte e quello di Mancini), credendo che bastasse cambiare allenatore e stile di gioco per risolvere ogni guaio senza dover rimettere in discussione certezze consolidate da decenni e ormai vecchie.

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