Il punto più basso del calcio (finora)

Venerdì 5 dicembre, la FIFA ha assegnato a Donald Trump il primo “Premio per la Pace” della sua storia. Un premio annunciato a sorpresa un mese prima, inventato da Gianni Infantino senza consultare nessun altro dirigente della FIFA, e coordinato da un comitato nato l’ottobre precedente e diretto da un uomo accusato di aver collaborato con la giunta militare birmana. Già solo quest’ultima frase dovrebbe essere sufficiente per spiegare il titolo di questo articolo: è il punto più basso mai toccato dal calcio. Ma la cosa peggiore è che, nei prossimi anni – che dico? Già nei prossimi mesi! – potremmo toccare un fondo ancora più fondo.

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Il calcio riuscirà a smettere di farsi umiliare da Trump?

Un video che circola online: Cristiano Ronaldo e Donald Trump posano per una foto insieme, poi dal nulla arriva un pallone da calcio, e i due iniziano a giocare e correre per lo Studio Ovale. Chiaramente si tratta di un’opera della IA, ma il fatto che sia stato condiviso dallo stesso Trump sul social media Truth (che vorrebbe dire “verità”, parola che la destra occidentale ha più ormai svuotato di ogni minimo significato) lo rende in qualche modo ufficiale: un falso sì, ma d’autore. Ma cosa è più grottesco? Questo video o il fatto che Ronaldo, alla Casa Bianca a incontrare Trump, ci sia andato sul serio? Una star globale che fino a pochi giorni fa non si era mai preoccupata di schierarsi in maniera netta su temi politici ha improvvisamente deciso di prestarsi, anima e corpo, alla propaganda di un governante fascista. Ronaldo alla stregua di Zuckerberg e Bezos. Per anni si è detto che figure di questo calibro, in particolare i grandi idoli pop come cantanti e atleti, farebbero meglio a evitare di collocarsi politicamente, per non alienarsi parte del proprio pubblico, e invece oggi qualcosa è evidentemente cambiato.

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Non si può fare a meno dei giornalisti tifosi

“Chi fa il tifoso, chi dimostra di non essere imparziale o di dare giudizi in qualche modo condizionati anche solo da simpatie o antipatie, verrà giudicato editorialmente inadatto a ricoprire il ruolo di inviato, o ad andare in onda, o ad avere responsabilità in redazione”. Con questa lettera, resa pubblica lunedì scorso da Lettera43, il direttore di Sky Sport Federico Ferri ha redarguito l’intero gruppo di lavoro, dopo l’episodio dei due stagisti sorpresi a esultare in diretta per un gol dell’Inter. “Non siamo fans ma giornalisti” avverte Ferri, precisando che “quei malcapitati ragazzi non sono gli unici”. Ma la verità è che queste parole suonano come un tentativo di chiudere il recinto quando i buoi sono scappati: se si vuole impedire ai giornalisti sportivi di comportarsi da tifosi, è ormai troppo tardi.

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Il calcio italiano è in guerra coi suoi tifosi

“Qui si tratta di capire se vogliamo l’uovo oggi o la gallina domani. Chi sviluppa una property sportiva ha l’obbligo di pensare a 5-10 anni e dobbiamo fare né più né meno quello che hanno fatto da sempre le grandi leghe americane. Se si vuole diventare una Lega internazionale si deve avere il coraggio di fare scelte impopolari”. Con queste parole, dette a Cronache di Spogliatoio in un’intervista pubblicata lunedì scorso, l’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo ha spiegato che, nonostante le proteste, il piano per portare Milan-Como del prossimo febbraio a Perth non solo andrà avanti, ma che è pure la cosa corretta da fare. Soprattutto, per la prima volta l’uomo che gestisce il massimo campionato professionistico italiano ha messo in chiaro un aspetto centrale della sua gestione: la Serie A non deve pensare agli interessi dei suoi tifosi.

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Storia di uno stadio a Gaza

Pochi edifici raccontano l’epoca contemporanea quanto gli stadi di calcio. Luoghi di culto moderni, per dirla come avrebbe fatto Marc Augé, in cui la comunità si riunisce in un rito collettivo, che a sua volta si lega a uno dei grandi fenomeni culturali dell’ultimo secolo, lo sport di massa. Più dei templi religiosi, più dei parlamenti e delle scuole, gli stadi incarnano lo spirito, i pensieri, le passioni, le ambizioni e i desideri delle comunità che li circondano. Lo stadio Yarmouk di Gaza, oggi, abbraccia la sua comunità, spaventata e infreddolita, sfregiata e violentata come l’impianto stesso. Non si gioca più a calcio, dentro lo Yarmouk: è ridotto a una rovina, ricolmo di tende e di fame, vano baluardo contro la violenza genocida di Israele.

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Il calcio europeo sta invertendo la rotta su Israele. Ma servirà a qualcosa?

Il 13 agosto, durante la Supercoppa europea tra PSG e Tottenham, la UEFA ha portato in campo un messaggio che recitava: “Basta uccidere i bambini, basta uccidere i civili”. Anche senza espliciti riferimenti, è stato chiaro a tutti che si stava parlando del massacro in corso in Palestina. Solo pochi giorni prima, la stessa UEFA aveva inaspettatamente pubblicato sui social un ricordo di Suleiman Al-Obeid, il cosiddetto “Pelé palestinese”, ucciso in un attacco israeliano mentre era in fila per gli aiuti umanitari. Anche in quel caso non c’era alcun riferimento alle circostanze della sua morte, ma pochi hanno sottolineato l’importanza politica di quel piccolo gesto: la UEFA aveva chiaramente fatto qualcosa di irrituale, commemorando la morte di un giocatore che non aveva nulla a che fare con il calcio europeo, cioè con il suo ambito di competenza.

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FIFA vs FIFPro: la battaglia sindacale che potrebbe decidere i futuri equilibri del calcio

Il primo Mondiale per Club con la nuova formula si è concluso poche settimane fa, e ancora non si è capito se sia stato un successo o un flop. Dal punto di vista degli spettatori, sarebbe certamente superficiale dire che non è stato visto da nessuno: al netto di molte partite con stadi in gran parte vuoti, specialmente nella fase a gironi (il record negativo sono state le 3.400 presenze di Ulsan Hyundai-Mamelodi Sundowns del 17 giugno a Orlando), spesso gli stadi si sono rivelati pieni o quasi (nelle tre partite conclusive non si è mai scesi sotto i 70.000 spettatori, più di quelli presenti all’ultima finale di Champions League a Monaco di Baviera). Motivo per cui oggi il principale ostacolo a una seconda edizione del torneo non è tanto l’interesse relativo del pubblico, quanto la battaglia sindacale minacciata (e in parte già incominciata) dai calciatori.

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La Juve da Trump è (purtroppo) un pezzo di Storia

Le foto della Juventus nello Studio Ovale, a fare da tappezzeria alla propaganda di Donald Trump, faranno purtroppo la Storia. Rimarranno come un tragico documento dei rapporti tra calcio e politica – ma potremmo anche dire sportwashing, anche se per una volta riguarda un paese occidentale – in uno dei momenti più tetri della nostra società. Possiamo discutere a lungo su chi abbia organizzato l’incontro, su chi era d’accordo e su chi era contrario, ma quelle foto resteranno, oscurando ogni altro discorso: nel giugno 2025, la Juventus si è prestata a un teatrino politico di Trump, tra discorsi bellicisti verso l’Iran e rivendicazioni di leggi discriminatorie che riguardano anche lo sport. Il tutto, nel già disagevole contesto di un Mondiale per Club che si gioca in un paese in accelerata fase di fascistizzazione.

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L’alleanza tra Infantino e Trump crea più imbarazzi che vantaggi alla FIFA

La FIFA oggi è tutto fuorché un attore indipendente e super partes nello scenario geopolitico globale. In queste prime settimane del 2025, Gianni Infantino si è completaente sdraiato sulle posizioni del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, confermando la sua preoccupante evoluzione da dirigente sportivo progressista a grottesco populista. Avvicinatosi a Trump in occasione dell’assegnazione dei Mondiali del 2026 ai tre paesi del Nord America, il capo della FIFA ha finito per diventare uno dei più fedeli partner del leader di estrema destra americano, consolidando questa partnership negli ultimi mesi. Abbiamo visto Infantino trasmettere un video-messaggio di Trump prima dell’assegnazione ufficiale dei Mondiali del 2030 e del 2034; poi il presidente della FIFA ha fatto aprire il sorteggio del Mondiale per Club del 2025 a Ivanka Trump e a suo figlio Theodore; infine abbiamo ritrovato Infantino invitato, in via del tutto eccezionale, alla cerimonia d’inaugurazione della nuova amministrazione USA. Ma questa deriva politica non viene senza un prezzo da pagare.

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Come Infantino è diventato il Trump del calcio

Giovedì scorso Gianni Infantino ha presentato il sorteggio del Mondiale per club del 2025, la prima edizione di un nuovo torneo su cui ha investito moltissimo della sua legacy come presidente della FIFA. Per condire un evento così importante, non ha voluto fare a meno di mandare in onda un messaggio del suo “amico molto speciale” Donald Trump, che guiderà gli Stati Uniti fino alla fine del 2028, ospitando quindi il Mondiale per club, quello per nazionali del 2026, e anche i prossimi Giochi Olimpici. “Gianni è un vincente. – ha detto Trump nel video – Lui è il presidente, e io sono il presidente”. Poi è iniziato il sorteggio, inaugurato – come se non fosse già abbastanza – facendo pescare la prima sfera a Ivanka Trump e a suo figlio Theodore. Mentre in platea c’era ovviamente il marito di Ivanka, Jared Kushner, già consigliere di Donald Trump e riconosciuto per essere l’uomo che gli ha portato la finale dei Mondiali praticamente nel giardino di casa, al MetLife Stadium di East Rutherford, New Jersey.

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